La fine del grand tour
Nella prima metà del '900, le automobili, il turismo e l'avvento del fascismo cambiarono l'esperienza di chi visitava l'Italia: ne fu testimone, nei suoi innumerevoli viaggi, il pittore Maurice Denis
Quando finì l’epoca dei grand tour? Non c’è una data esatta, ma penso che si possa dire che dopo la Prima guerra mondiale viaggiare in Italia non fu più la stessa cosa. La modernità avanzava rapida sotto forma di automobili, traffico, velocità; l’avvento del fascismo rese l’Italia meno accogliente per gli stranieri; e infine anche l’esperienza del viaggio cessò di essere un’avventura per assomigliare sempre più a qualcosa di preconfezionato, a un viaggio da turista, “da cartolina”.
Questi cambiamenti si vedono bene nei viaggi di Maurice Denis, pittore francese del gruppo di avanguardia dei Nabis, che visitò l’Italia moltissime volte in un lungo arco di tempo che va dal 1898 al 1937. Denis raccolse alcuni dei suoi diari di viaggio nel volume Charmes et leçons de l’Italie (1935), mentre nei suoi taccuini sono conservati innumerevoli disegni “italiani”1.
Due parole su Maurice Denis, un artista che personalmente non conoscevo. Oltre che un pittore, fu un influente teorico dell’arte e le sue idee influenzarono diversi movimenti d’avanguardia di inizio ‘900. La sua opera però si caratterizza per una riscoperta delle idee classiche e per una profonda religiosità. Due motivi che lo spinsero a viaggiare in Italia. Nel 1910 ad esempio girò l’Umbria in bicicletta, alla ricerca di ispirazioni per illustrare i Fioretti di San Francesco d’Assisi2 (qualche anno dopo fece lo stesso per illustrare la vita di San Domenico). Nel 1922 vide per la prima volta Venezia, dove la XIII Esposizione internazionale d’arte (la Biennale odierna) ospitò una retrospettiva a lui dedicata3.
In Charmes et leçons de l’Italie Denis racconta i suoi viaggi in Italia tra il 1921 al 1934, dalla Sicilia a Roma, da Firenze e Siena a Venezia e Padova: sono pagine piene di riflessioni e idee sull’arte antica, moderna e contemporanea, tuttavia mi sembra più interessante concentrarsi sui cambiamenti di cui Denis è testimone.
Nel 1921 il pittore, che viaggiava con la figlia Madeleine, da Tunisi si imbarcò per la Sicilia. All’arrivo, l’Italia gli sembrò quella di sempre:
Entriamo nel porto di Trapani. Sento le campane chiamare rapide alle messe del mattino, vedo delle cupole di chiese, le barche sono decorate con delle pitture: è l’Italia.
[A Palermo] Entro in una chiesa, e siamo agli ultimi giorni di quaresima. Altrove, nei nostri paesi, le immagini sono velate. Qui, dipinti e sculture restano scoperti. Ma un immenso velo dipinto, il velo del Tempio che crollerà alla fine della settimana santa, è sospeso davanti all’altare maggiore con delle grandi pieghe, come il sipario di un teatro. Quel tendone, di un bel violetto, rappresenta la Passione del Salvatore, nello stile patetico del diciottesimo secolo. Ce n’è uno in tutte le chiese. Così, per esortare i fedeli alla contrizione e alla penitenza, invece di una spoglia austerità, le chiese di Palermo espongono un’immagine in più. Questo è il paese della pittura: è l’Italia.
Ma Denis trovò anche delle spiacevoli novità: la prima è la soppressione delle mance. È uno dei primi segnali che in Italia il turismo stava diventando un affare e in quanto tale doveva essere regolato e controllato. Nel 1919 la rivista del Touring Club Italiano4 definiva la mancia “la vera piaga del turismo”, “un anacronismo” e lesiva della dignità di chi la riceveva.
Addio dunque all’incantevole gentilezza e a tutti quesi servizi interessati che l’Italia di prima della guerra faceva così ben valere, e a quel delizioso miscuglio di cortesia e accattonaggio. Che riforma assurda!
Denis però, se l’occasione si presentava, non rinunciava a far scivolare qualche moneta nella mano del cameriere di una trattoria, “per ottenere le attenzioni e i sorrisi d’altri tempi”.
Gli stessi sintomi di un turismo già troppo omologato Denis li trovò a Taormin.
Vediamo un po’ troppi inglesi e un po’ troppi pittori, troppe ville e hotel, troppe fotografie dove ragazzini nudi posano da pastori di Virgilio. La natura sembra conformarsi all’estetica delle cartoline. E il nostro piacere è preparato con troppa cura.
Ma la città che più di tutte aveva subito delle trasformazioni era senza dubbio Roma. Denis la conosceva bene, ci era stato già tre volte prima della guerra. Alla sua quarta visita trovò una grossa novità: l’Altare della Patria, il Vittoriano, in costruzione dal 1911 come monumento a Vittorio Emanuele II. Per Denis un’opera “mostruosamente fuori scala, schiaccia la città”, pensata per simboleggiare “la vittoria sul papato”, che però avrebbe potuto essere espressa “con più discrezione”.
E non era l’unica innovazione: “il Foro trasformato in giardino inglese; la grande piazza di Caracalla; e una nuova banca in piazza Colonna”. Tuttavia, secondo Denis, “il prestigio della Città eterna resiste ai tempi e agli uomini, malgrado gli stravolgimenti,”.
I tram, il traffico intenso, la vita moderna lasciano comunque sempre un angolo solitario dove i rumori della strada si attenuano, e ci si può attardare ad ascoltare piangere i getti d’acqua davanti a una nobile facciata.
Se riuscissero ad abolire nella Roma moderna le vestigia della Roma papale, se la campagna diventasse, come nei dintorni di Napoli, un immenso frutteto, avrebbero distrutto uno dei più belli poemi del mondo.
Anche a Roma c’era chi si opponeva a stravolgimenti eccessivi. Ma non abbastanza, secondo Denis.
Vorrei che gli amici romani fossero più esigenti e più energici. Hanno ottenuto che il Colosseo fosse negato a un impresario che voleva, credo, installarvi un teatro. Si sono opposti a un progetto scandaloso di perforazione in piazza Navona. Ma perché non hanno difeso piazza Colonna? Quell’edificio di non so più quale banca [credo che Denis si riferisca all’attuale Galleria Alberto Sordi, inaugurata nel 1922] ne ostruisce quasi metà, la prospettiva della colonna di Marco Aurelio è distrutta e il traffico così intenso in quel punto del Corso trasforma in un incrocio pericoloso una piazza centrale che fu così bella.
A Denis non piacque nemmeno quello che stavano facendo i giardinieri a Roma, e in particolare se la prese col l’archeologo Giacomo Boni, che era stato a lungo direttore degli scavi al Foro romano e al Palatino.
Pianta a più non posso. Il Palatino e il Foro stanno per diventare un’unica foresta, dove il pino silvestre e anche il pino da zucchero crescono rapidamente fogliame prematuro. Dai giardini Farnese non si vede più l’arco di Tito. Corot non riconoscerebbe le vedute magnifiche che ha immortalato.
I viaggi di Denis sono un continuo rimando agli artisti che prima di lui hanno visitato l’Italia. Nelle pagine di Charmes et leçons de l’Italie ritroviamo molti nomi noti ai lettori di questa newsletter, come Corot, Stendhal, Ingres, David, e anche alcuni di cui non ho mai ancora scritto, come lo scrittore François-René de Chateaubriand e sopratutto Jean-Baptiste Colbert, fondatore (insieme a Bernini), dell’Accademia di Francia a Villa Medici.
La villa sulla collina del Pincio non poteva non essere una tappa per Denis. Gli artisti francesi residenti a Villa Medici vivono come esiliati - ricevono le ultime novità sulle tendenze parigini dagli artisti italiani! - e molti di loro chiedono consiglio a Denis su cosa fare a Roma, dato che ormai ci sono. “A questa domanda rispondo con certezza: lasciarsi permeare da Roma, vale a dire cercare gli insegnamenti che voleva Colbert, adattarsi alla disciplina classica, trarre profitto dalle opere del diciassettesimo secolo […] - e pensare a quello che rappresentavano per audacia, fantasia, spirito creativo, novità all’epoca in cui furono eseguite.
Esco da Villa Medici un po’ tardi. La vasca di Corot brilla di un blu turchese nell’ombra delle querce verdi dorate dai riverberi. Ci sono ancora dei bagliori verdastri nel cielo sopra le cupole della città addormentata. Non si sente altro che il rumore dei getti d’acqua. Che solitudine! Che esaltazione!
Nel suo viaggio del 1921, dopo Roma Maurice Denis visitò Siena e Firenze. Ma quello era un anno di elezioni politiche: l’Italia stava per passare da due anni di occupazioni e scioperi nelle fabbriche (il Biennio rosso) al ventennio fascista, e la campagna elettorale era caratterizzata da un’estrema violenza. A Siena Denis si ricordò di San Bernardino, francescano del ‘400 “apostolo della pace, nemico della parzialità, duro con i Guelfi come con i Ghibellini, che condannava con la massima severità la vendetta politica, cosa direbbe se vedesse il mondo in pieno periodo elettorale, nell’anno di grazia 1921?”. Guidato da questo pensiero, il pittore ci descrive gli scontri tra fascisti e comunisti di quel periodo.
Le “manchettes” tragiche delle edicole turbano la nostra tranquillità. Un giorno sono dei fascisti vigliaccamente assassinati in un’imboscata di contadini comunisti. Un altro, è la casa del popolo sovietica data alle fiamme dai difensori dell’ordine. L’interno della casa del popolo di Siena, presso Santa Maria delle Nevi, è stato incendiato dai fascisti, e le pareti crivellate di pallottole attestano la violenza della lotta.
Un’Italia nuova è nata dalla guerra. O piuttosto, non è il ritorno ai costumi medievali, a quella guerra di strada che addolorava San Bernardino? Dopo l’epoca di Stendhal, le rivoluzioni e l’ebrezza del Risorgimento non hanno modificato di molto gli antichi usi cortesi e le belle maniere degli italiani. I cambiamenti prodotti dalla guerra sono più profondi. I giovani che l’hanno fatta hanno dei modi perentori di stare in strada, e nei treni. Ci spintonano. I fascisti mostrano in faccia agli stranieri che molestano una cortesia glaciale, imitata dagli ufficiali tedeschi, e che non ha più nulla della gentilezza dell’italiano di un tempo.
Montati dalla propaganda che dipingeva l’Italia come derubata dalle altre potenze europee, che non le avevano reso giustizia dopo la Prima guerra mondiale, i fascisti se la prendono con i viaggiatori stranieri. Quotidiani come La Nazione, ci dice Denis, sono apertamente francofobi.
Straniero che porti un cappello floscio, occhiali, una barba intorno al volto, stai attento: i fascisti armati di manganello e di revolver ti sorvegliano. Al caffè, ti obbligano a mostrare il passaporto, ti fanno subire un interrogatorio (è successo a un mio allievo, Pierre Couturier, al café Greco a Siena). Invadono la tua camera d’albergo e perquisiscono la tua valigia, le tue carte (è successo a me, ad Arezzo).
È molto istruttivo leggere queste righe di Denis: ci mostra come molte persone allora, pur avendo sotto gli occhi il pericolo rappresentato dai fascisti, pur essendone danneggiate personalmente, preferirono non vedere, non capire, pur di non cadere nell’altro pericolo, quello rappresentato dai “bolscevichi”.
Sappiamo chi sono i fascisti: ex combattenti, giovani della classe media, che, ogni sera e ogni domenica, rischiano con molto coraggio la loro vita nella dura guerra che fanno ai comunisti, incendiando le case del popolo, bruciando le bandiere rosse e i ritratti di Lenin, vietando con la forza tutta la propaganda bolscevica. Malgrado i guai che portano alla nostra vita da viaggiatori, non posso fare a meno di ammirarli.
Quello che mi preoccupa è che grazie a loro l’Italia si militarizzi. Un nazionalismo così esasperato non può esistere senza xenofobia.
Ed è proprio quel che accadde.
Facciamo un salto di qualche anno e passiamo alle successive visita di Denis a Roma, nel 1928 e nel 1931. Il fascismo, ormai divenuto dittatura, stava ulteriormente cambiando il volto della città.
A ogni viaggio, scopro a Roma delle belle novità, ma anche delle nuove distruzioni e dei nuovi edifici. La Città Eterna, simbolo di ordine e di durevolezza, si adatta a queste trasformazioni. Concilia la sua fedeltà al passato col suo amore per il cambiamento. Divenuta capitale fascista, ha accettato questa disciplina come tutte quelle che, per via della sua grandezza, ha subito nel corso dei secoli: Giulio II, Sisto Quinto o Napoleone.
Il fascismo era intento a far risorgere la Roma antica, a progettare una città capitale di un impero. Così il regime, riprendendo piani già elaborati a fine ‘800, decise di radere al suolo le case dove abitava il popolino, il quartiere Alessandrino, proprio vicino al Foro, e trasferì di forza la popolazione nelle borgate di periferia, anche se lì non c’era ancora nulla (è da qui che nasce il termine “coatto”, a indicare la persona, di bassa estrazione sociale, che era stata costretta a questo trasloco). Denis si trovava davanti la nuova Roma, ma ricordava ancora la vecchia.
[Roma] è un vasto cantiere dove crollano i vecchi quartieri, dove risorgono delle nuove rovine. Antiche strade pittoresche, ma sordide, e piccole chiese barocche fanno spazio a larghi viali, a nuovi edifici. A Largo Argentina è scomparso tutto un gruppo di case che nelle fondamenta celavano i templi ora restituiti. La via Tor di Specchi, sventrata, lascia vedere le pendici del Campidoglio e della Rupe Tarpea. Il teatro di Marcello che ho conosciuto pieno di negozi, botteghe, bancarelle, col bucato alle finestre e una popolazione pittoresca […] è ora libero e diventa un nuovo Colosseo. Ma la grande sorpresa è il Foro di Traiano e il Foro di Augusto, uniti lungo la via Alessandrina da lavori di grande portata.
Denis riconosceva che il Foro era diventato “una delle antichità più grandiose della città”, tuttavia non poteva non rimpiangere “uno dei più bei angoli di Roma” e soggetto per molti pittori - quello formato dall’Arco dei Pantani e dalle tre colonne del tempio di Marte Ultore - che gli scavi avevano fatto scomparire.
Cambiamenti simili riguardavano piazza della Bocca della Verità, “irriconoscibile dal mio ultimo viaggio di due anni fa”, e perfino il Vaticano, “ugualmente stravolto da costruzioni fastose” come il palazzo del governatorato, costruito tra il 1927 e il 1931.
Ci sono operai dappertutto, camion e impalcature. Cosa resta quindi agli innamorati della Roma di una volta? Qualche vecchio quartiere nei dintorni di piazza Navona, il portico d’Ottavia e la sua larga strada ancora abitata dai superstiti del ghetto ora distrutto e di cui non resta che la piccola cappella Sant’Angelo, dove un tempo gli ebrei dovevano ascoltare un sermone annuale. Bisogna dire addio al pittoresco, a quel miscuglio di fasto e indigenza della Roma papale. È la fine di quei romani sordidi nascosti tra le rovine dei circhi e dei templi: non ne vedremo più se non nelle tele e nelle incisioni del 18esimo e del 19esimo secolo.
Denis in fondo non era contrario ai cambiamenti e trovava che il regime fascista stesse procedendo in modo sensato, “con un piano d’insieme”, proseguendo in fondo un’antica tradizione romana per cui la città non aveva mai smesso di essere un cantiere.
È molto curioso che tra questa grande città moderna e la grande città morta di cui copre le rovine ci sia un’unione indissolubile, attraversata da conflitti e gentilezze reciproche, la città moderna si scansa per lasciar comparire le vestigia dell’altra e l’antica, via via sempre più ingabbiata, divenuta oggetto da museo, separata dalla vita, cessa di ospitare sotto i suoi archi di mattoni il popolo romano, ma rimane sempre indispensabile alla sua gloria.
La vecchia Roma non era scomparsa del tutto. E Denis ogni tanto ne ritrovava un pezzetto, magari entrando in una chiesa.
Nel cuore di questa Roma moderna, quella delle camicie nere, dei balilla, della grandi manifestazioni civiche, del traffico intenso e degli autobus ultrarapidi, entro a Sant’Ignazio. La chiesa è illuminata; e mi sembra di essere a uno spettacolo di corte come quelli che conosciamo grazie ai pittori del18esimo secolo. Migliaia di piccoli lampadari di cristalli come le lampade delle moschee pendono da fili invisibili […]; migliaia di piccole ampolle nascoste in quei lampadari creano una luce simile a quella delle antiche candele, discreta e sottile, di una dolcezza inesprimibile: un’illuminazione a giorno, all’uso di un tempo.
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I quaderni di Maurice Denis sono conservati e digitalizzati dal Louvre.
Il volume completo, pubblicato nel 1913, si trova su Gallica.
Tutte queste informazioni sulla vita del pittore le ho trovate nel catalogo della mostra su Maurice Denis che si tenne a Lione nel 1994.
Vedi questo articolo sul sito del Touring club italiano.