A pranzo con Goethe
Si può scrivere dell'Italia senza mai parlare di cibo? Lo scrittore tedesco in effetti non sembra molto interessato a mangiare, almeno fino a quando non si trova davanti un bel piatto di maccheroni
È quasi inconcepibile, oggi, un viaggio in Italia che non abbia il cibo come protagonista. Eppure leggendo i vari diari/resoconti dei nostri viaggiatori una domanda mi si è affacciata alla mente: ma non mangiano mai? Goethe, Stendhal e gli altri sono capaci di riempire pagine e pagine per descrivere gli spettacoli che hanno visto all’opera, e invece mangiare non sembra per loro un’attività degna di essere raccontata. Non posso metterci la mano sul fuoco - non so a memoria tutto quello che hanno scritto questi viaggiatori - è più un’impressione che ora provo a verificare “in diretta”, ricontrollando le mie fonti mentre scrivo.
Prendo Goethe come esempio, perché lui è curioso di tutto: i comportamenti umani, i costumi, la vegetazione, i minerali… ci si aspetterebbe di trovare nelle sue pagine anche un certo interesse per il cibo, e invece in tutto il Viaggio in Italia, descrive un solo pranzo. E bisogna aspettare che arrivi a Napoli per vederlo sedersi a tavola. Il pranzo in realtà è solo il contesto in cui si svolge una scenetta divertente. Siamo a casa della “principessina” Teresa Filangieri, e gli ospiti, a parte Goethe, sono tutti ecclesiastici. La principessina si diverte a provocarli - “Cafoni! Non li sopporto. Ogni giorno prendono una fetta della nostra roba”, dice. E così mentre preti e frati spazzolano pasticcini salati, piatti di pesce mascherati da carne (siamo in Quaresima), lei li punzecchia - “Il vostro cucchiaio è troppo piccolo, temo!”, “Prego, ne prenda una mezza dozzina! La pasta sfoglia, come sa sicuramente, è facile da digerire”. In tutta questo Goethe non descrive mai, mai, quello che lui ha assaggiato.
Sempre a Napoli, lo scrittore si trova a passeggiare sul molo durante la festa di San Giuseppe, “il patrono di tutti i Frittaroli”, e descrive un cibo di strada che non sono riuscito con sicurezza a identificare:
Fuori dalle porte le padelle sibilavano su focolari improvvisati. Un frittarolo lavorava la pasta, un altro la modellava e la gettava nel lardo bollente. Un terzo stava vicino alla padella tenendo uno spiedo corto; tirava fuori le ciambelle appena erano pronte, poi le infilava su un altro spiedo e le porgeva a un quarto socio, che le offriva agli astanti. Gli ultimi due erano in genere giovani apprendisti e indossavano parrucche di riccioli biondi - è il simbolo napoletano per gli angeli. Altre persone lì di fianco completavano il gruppo, e questi erano impegnati a porgere il vino ai cuochi indaffarati, o a berlo loro stessi, e nel frattempo urlavano e promuovevano il prodotto; anche gli angeli, e anche i cuochi, tutti facevano chiasso. La gente si affollava per comprare, perché tutti i fritti si vendono a poco prezzo in questa serata, e una parte dei profitti vanno ai poveri.
È la festa di San Giuseppe… è possibile che Goethe stia parlando delle zeppole? O sono taralli? Esistono i taralli fritti? In ogni caso, notiamo che Goethe non assaggia nemmeno questi.
A Palermo, finalmente, lo scrittore tedesco ammette di aver mangiato qualcosa:
Non ho ancora detto niente del cibo e delle bevande del posto. Ma non è per niente un argomento trascurabile. Gli ortaggi sono eccellenti, specialmente l’insalata, che è particolarmente tenera, con un gusto di latte; ti fa capire subito perché gli antichi l’hanno chiamata lactuca. L’olio, il vino, tutto molto buono, e potrebbero essere ancora meglio se si avesse più cura nella loro preparazione. Pesce del miglior tipo e tenerissimo. Abbiamo assaggiato anche ottimo manzo, anche se di solito qui le persone non l’apprezzano. E ora dal pranzo passiamo alla finestra! Alle strade!
La lattuga? Davvero? A questo punto, comincio a sospettare che il problema sia il palato di Goethe. Faccio notare anche con quanta fretta lo scrittore chiude il discorso sul cibo (nelle righe seguenti descrive un condannato a morte che viene graziato). A questo punto mi viene anche da pensare che magari all’epoca fosse indelicato parlare di cibo, descrivere il gesto di mangiare… ma non saprei come verificare questa ipotesi. O forse la cucina italiana non era ancora un’eccellenza?
Ma andiamo avanti. Ad Agrigento - all’epoca si chiamava ancora Girgenti - non ci sono alberghi, così Goethe e il disegnatore che lo accompagna nel suo viaggio in Sicilia, Christoph Heinrich Kniep, vengono ospitati da una famiglia in una casa che è anche un pastificio.
Una tenda verde separava noi e i nostri bagagli dai membri della famiglia, che nella camera a fianco erano impegnati a preparare maccheroni bianchissimi e piccolissimi. Quelli pagati meglio sono quelli che dopo essere stati modellati a forma di lunghe matite, avvolti in spirali con un tocco delle dita di una ragazza, assumono una forma a chiocciola. Ci sedemmo dal lato dei graziosi bambini, e così mi fu spiegato l’intero processo di lavorazione, venni informato che si adoperava il grano migliore e più duro, chiamato Grano forte. La preparazione è fatta principalmente a mano, macchine e stampi si usano pochissimo. Ci hanno anche preparato un piatto di eccellenti maccheroni, dispiacendosi di non avere in quel momento nemmeno una porzione della loro varietà migliore, che non si può trovare fuori di Agrigento, anzi, non si può trovare fuori da casa loro. Per bianchezza e tenerezza, mi sembrarono impareggiabili.
Anche qui, chissà di che pasta si tratta… Anellini? Gramigna? Busiate? In ogni caso, posso capire la bianchezza - probabilmente la farina bianca non era così comune all’epoca - mi preoccupa molto invece la “tenerezza”: non vorrà dire che abbiamo dato a Goethe della pasta scotta??
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