Contro gli italiani
Per i viaggiatori europei, e soprattutto per gli inglesi, gli italiani del '700/'800 erano praticamente dei selvaggi. Solo dopo una lunga permanenza cambiavano opinione, come accadde a Percy Shelley
Ci sono due Italie - una è formata dalla terra verde e dal mare trasparente, dalle possenti rovine del tempo antico, e dalle montagne panoramiche, e dall’atmosfera calda e splendente che soffonde tutte le cose. L’altra consiste negli italiani di oggi, nelle loro attività e nelle loro maniere. L’una è la più sublime e bella idea che possa essere concepita dall’immaginazione dell’uomo; l’altra è la più degradata, disgustosa e odiosa. Cosa te ne sembra? Qui le giovani nobildonne mangiano - non indovinerai mai cosa - aglio!
Così scrive Percy Bysshe Shelley, da Napoli, nel dicembre del 1818. Non odiatelo. Vi assicuro che la sua storia è la più commovente tra tutte quelle che sto inserendo nel mio fumetto. E qui bisogna almeno dargli atto di una cosa: scrive in maniera esplicita quello che tutti gli altri viaggiatori in Italia si limitano a pensare.
È difficile oggi immaginare lo shock culturale che doveva colpire i viaggiatori europei al loro arrivo in Italia: da una parte la bellezza dei monumenti classici, che tanto a lungo avevano desiderato vedere, dall’altro la miseria e la diversità del popolo italiano. Questo contrasto era tanto più forte per chi veniva dalla “civile” Inghilterra, che in quel momento dominava il mondo: al confronto l’Italia doveva essere davvero arretrata. È interessante assistere alla trasformazione nello sguardo di questi giovani poeti inglesi - ragazzi di vent’anni, romantici, idealisti, che tuttavia sono figli della stessa Inghilterra che solo pochi anni prima ha sconfitto Napoleone a Waterloo. Percy e Mary Shelley, Lord Byron, che pure dall’Inghilterra sono scappati in Italia, faticano non poco a comprendere usi e costumi dei loro nuovi concittadini.
Il caso di Shelley è forse quello in cui questa trasformazione è più evidente. Inizialmente le sue osservazioni sconfinano quasi nel razzismo, come si legge nella sua seconda lettera dall’Italia (da Milano, per la precisione), scritta nell’aprile 1818:
La gente qui, anche se abbastanza inoffensiva, sembra appartenere sia nel corpo sia nell’anima a una razza miserabile. Gli uomini sono a stento uomini; sembrano una tribù di schiavi stupidi e raggrinziti e non ho visto un barlume di intelligenza sul volto di un uomo da quando ho passato le Alpi.
Pian piano le osservazioni di Shelley si fanno più elaborate. Dai Bagni di Lucca, nel luglio 1818, scrive questo:
Gli italiani moderni sembrano un popolo misero, senza sensibilità o immaginazione o ragione. All’apparenza sono educati e uno scambio con loro sembra procedere con gran facilità finché non finisce in nulla e non produce nulla. Le donne sono particolarmente vuote e anche se possedute da una sorta di grazia superficiale, sono prive di ogni cultura e raffinatezza.
Ma è soprattutto a Napoli, che per quasi tutti i viaggiatori è il punto più a sud dell’Italia fin cui si spingeranno, che il contrasto si fa quasi insopportabile. Soprattutto se si viene accolti nel modo che capitò a Shelley, nel dicembre 1818:
Entrando a Napoli, il primo episodio che ha impegnato la mia attenzione è stato un assassinio. Un giovane correva fuori da un negozio, seguito da una donna con un randello e da un uomo armato di coltello. L’uomo lo raggiunse e con un colpo alla nuca lo stese a terra morto sulla strada. Mentre esprimevo le emozioni di orrore e indignazione che sentivo, un prete calabrese che viaggiava con me rise di gusto. Non ho mai sentito tanta voglia di colpire qualcuno. Il cielo sa che ho poca forza, ma lui vide che ero estremamente contrariato e fece silenzio.
Il disgusto però è mescolato a una strana fascinazione:
Niente può essere più pittoresco dei gesti e delle fattezze di questa gente selvaggia. Non hai idea delle grida orribili che improvvisamente lanciano, il clamore, il vociare, il tumulto. E quando, nell’oscurità della notte, inaspettatamente cominciano a cantare in coro qualche frammento della loro selvaggia ma dolce musica nazionale, l’effetto è estremamente bello.
Già Goethe descriveva qualcosa del genere nel 1787. Mentre con il disegnatore Kniep rientrava su un calessino da una visita a Paestum, sulla strada comparve il panorama di Napoli, “in tutto il suo splendore”. La bellezza del panorama diede origine a uno scambio rivelatore con il ragazzo che conduceva il carro:
Un orrendo canto, o meglio un urlo esultante, un ululato di gioia proveniente dal ragazzo dietro di noi ci spaventò e infastidì. Piuttosto arrabbiato, lo sgridai; non aveva mai ricevuto rimproveri da noi - era un bravo ragazzo. Per un po’ non si mosse; poi mi toccò piano sulla spalla e sporgendo tra noi il braccio destro, con l’indice della mano puntato avanti, esclamò “Signor, perdonate! Questa è la mia patria!”. E così rimasi incantato. Qualcosa di simile a una lacrima spuntò negli occhi di questo imperturbabile figlio del nord.
Ritroviamo lo stesso miscuglio di repulsione e fascino circa ottant’anni dopo. Nei suoi diari (di cui avevamo già parlato qui) Paul Klee descrive così le sensazioni vissute al porto di Napoli:
Giù al porto, provi a farti strada attraverso un incredibile mondo che suona piuttosto differente da quello che si trova nella canzone di “Santa Lucia”. Che gente c’è laggiù! Brutti e poveri, si adagiano al sole, nauseanti, disgustosi, laceri, mezzi nudi. Sono neutrale - attratto da loro senza pietà, con una sorta di repulsione affamata di conoscenza. Sorrido mentre mi ribello contro di lei, so che la mia arte ha bisogno di queste cose come di una base. I suoi frutti appassiranno facilmente, finché non rifioriranno più forti. Che arrivi il giorno della prova. Essere capace di riconciliare gli opposti! Esprimere il molteplice in una singola parola!
Devo dire che il disprezzo contro gli italiani sembra almeno essere “democratico”, è rivolto allo stesso modo a nobili, borghesi e popolani. Anzi, forse è più feroce nei confronti dei nobili (“I nobili in particolare sono brutti, la borghesia è meglio”, scrive Lord Byron da Venezia).
Tornando a Shelley, il poeta seguirà con passione le insurrezioni del 1820 e 1821 a Napoli e in Sicilia. Dopo due anni in Italia, le sue idee sugli italiani si sono modificate, evidentemente, anzi Percy e Mary Shelley si concentrano sulle cause della miseria e dell’arretratezza in cui vivono gli italiani. L’edizione delle lettere di Shelley che sto adoperando è corredata da alcune note di Mary, dove la scrittrice spiega bene questo cambiamento:
Queste impressioni di Shelley sugli italiani, formate nell’ignoranza e con precipitazione, si modificarono del tutto dopo una permanenza più lunga in Italia. Scoprì rapidamente la straordinaria intelligenza e il genio di questo popolo meraviglioso, in mezzo all’ignoranza in cui sono attentamente tenuti dai loro governanti, e ai vizi, incoraggiati da un sistema religioso, che gli stessi governanti hanno usato come loro motore più efficiente.
Sorprendentemente è proprio il più aristocratico dei viaggiatori - Lord Byron - a capire davvero gli italiani. Nel febbraio del 1820, risponde al suo editore John Murray, che gli aveva chiesto un libro sull’Italia, con questa splendida lettera:
Mi chiedi un libro sui costumi dell’Italia (in Italia). Forse io sono nella condizione di conoscerli più di molti inglesi, perché ho vissuto tra i nativi e in parti del paese in cui nessun inglese ha soggiornato prima (parlo della Romagna e di Ravenna in particolare); ma ci sono molte ragioni per cui scelgo di non pubblicare su questo argomento. Ho vissuto nelle loro case e nel cuore delle loro famiglie, a volte semplicemente come “amico di casa” e altre come “amico di cuore” della dama, e in nessun caso mi sento autorizzato a fare un libro su di loro. La loro morale non è la vostra morale; la loro vita non è la vostra vita; non la capireste; non è inglese né francese né tedesca, tutte queste le capireste. I modi di pensare e di vivere sono così totalmente diversi, e la differenza diventa tanto più evidente quanto più vivi in intimità con loro, che io non so come farvi comprendere un popolo che è allo stesso tempo mite e dissoluto, serio nel carattere e pagliaccio nei divertimenti, capace di impressioni e passioni che sono allo stesso tempo improvvise e durevoli e che non hanno in effetti nessuna vita di società, lo vedi nelle loro commedie: non sono vere commedie, nemmeno in Goldoni: perché non hanno nessuna Società da cui trarle.
Vanno a teatro per parlare e in compagnia per mordersi la lingua. Le donne siedono in circolo e gli uomini si radunano in gruppi o giocano per piccole somme. Il loro momento migliore è il Carnevale, quando tutti impazziscono per sei settimane. Dopo cena recitano versi improvvisati e si prendono in giro l’un l’altro: ma è uno humour in cui non riuscireste a ritrovarvi, voi del nord.
Nelle case è meglio. Il loro sistema ha le sue regole, le sue consuetudini e il suo decoro, si può ridurre a una specie di gioco di cuori, che ammette poche deviazioni se non vuoi perdere. Sono estremamente tenaci e gelosi come furie. Non permettono ai loro amanti nemmeno di sposarsi, se possono, e se li tengono sempre vicini in pubblico e in privato appena possono. In breve, trasformano il matrimonio in adulterio e il motivo è che si sposano per i loro genitori e amano per se stessi.
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Io, impressionista - Uno scorcio, o una certa luce, o a volte un suono. Sono le cose che mi rimangono quando da un viaggio è trascorso abbastanza tempo.
La forma dell’Italia - Fino a pochi secoli fa nemmeno i cartografi sapevano con precisione come fosse fatta la penisola. L'Italia che cambia forma nelle mappe di Greci, Romani e Arabi sarà forse l'incipit del mio libro
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le parole di Shelley dall'Italia nel dicembre del 1818 suonano così moderne! (...)
In che senso secondo Byron gli italiani non avrebbero nessuna vita di società? 🧐