Felicissima notte!
Si diceva così, nell'Italia tra '700 e '800, quando si portava il lume in camera prima di andare a dormire. Un'espressione scomparsa che mi ha fatto pensare a che tipo di italiano si parlava allora
Quando leggo la corrispondenza dei viaggiatori protagonisti di questa newsletter mi capita spesso di trovare parole, frasi, a volte intere lettere scritte in italiano. Molti degli artisti stranieri che viaggiavano nella penisola in effetti sapevano l’italiano, più o meno bene. Addirittura il papà di Goethe, Johann Caspar, nel 1740 aveva scritto il suo Viaggio per l’Italia direttamente in italiano. L’italiano come lingua letteraria esisteva già da diversi secoli, direi almeno da quando, nel 1525, Pietro Bembo aveva proposto di prendere il toscano di Petrarca e Boccaccio come modello per un’unificazione linguistico-letteraria dell’Italia. Ma l’italiano parlato? Che lingua si ritrovavano nelle orecchie i viaggiatori stranieri che avevano studiato l’italiano magari solo sui libri, quando arrivavano finalmente in Italia? È difficile dirlo, ma nel 1758, da Roma, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann scriveva questo:
Mi chiedi che lingua parlo? Quale se non l’italiano! Ma i miei continui studi e il fatto di stare poco tra la gente mi hanno rallentato molto. Questa lingua è più difficile di quanto uno si immagini leggendo i libri. È ricca per lo meno quanto il greco, la pronuncia romana poi non è delle più facili del mondo da imparare.
Sappiamo che al momento dell’unità d’Italia, nel 1861, i parlanti italiano erano un’esigua minoranza: secondo Tullio De Mauro, nel suo Storia linguistica dell’Italia unita (1963), erano solo 160 mila, il 2,5% della popolazione. Negli anni i linguisti hanno rivisto al rialzo questa percentuale, come Luca Serianni spiegava in questa bellissima lezione, ma, mi pare, senza andare oltre il 10%. A parte il caso dei toscani, gli italofoni dovevano rappresentare un’élite istruita e benestante, mentre tutti gli altri parlavano dialetto. Tuttavia può essere che, se anche la maggioranza delle persone non parlava abitualmente italiano, molti fossero comunque in grado di capirlo e di usarlo, magari con qualche impaccio. Immagino fosse questo il caso per tutta una serie di figure con cui i viaggiatori stranieri dovevano avere per forza a che fare: doganieri, vetturini, guide, osti, albergatori, affittacamere… tutte persone che dovevano in qualche modo capire e farsi capire, e certo non potevano farlo in dialetto.
Tutta questa premessa per arrivare a un’espressione italiana che incantava i viaggiatori stranieri: felicissima notte. Personalmente non credo di averla mai usata né sentita pronunciare da altri - se invece a voi risulta familiare, fatemelo sapere! Una volta doveva essere molto usata, perché continuo a trovarla citata nelle lettere e nei diari dei viaggiatori in Italia. Il primo a parlarne è Goethe, che scrive così da Venezia nell’ottobre del 1786:
“Buona notte”, diciamo noi del nord, in qualsiasi ora ci congediamo dopo il tramonto; gli italiani invece dicono “Felicissima notte!” soltanto una volta, cioè quando si porta il lume nella stanza, nell’ora in cui finisce il giorno e comincia la notte.
Ritroviamo la stessa espressione a chilometri e decenni di distanza, citata da Hans Christian Andersen a Napoli nel 1834. Dopo aver descritto la serenata di un amante in un vicolo, lo scrittore danese osserva:
Ancora un altro tocco della chitarra e la porta sulla strada si apre gentilmente. Il giovane amante scivola dentro! “Felicissima notte!”, ovvero buona notte e dormi bene, diciamo noi al nord, ed è un augurio molto bello! Chi dorme non commette peccati. Gli italiani, al contrario, dicono “Felicissima notte!” e il sole del sud brilla in questo saluto.
Nel 1862 la statunitense Caroline Crane, in vacanza sul lago di Como, ci fa sapere che esisteva anche l’espressione “Felice sera”, che aveva un suo uso distinto e non richiedeva il superlativo.
Abbiamo notato qui un’abitudine che immagino essere lombarda perché non la ricordo in nessun’altra parte d’Italia. Quando il domestico porta le lampade e le posiziona sul tavolo per la sera, dice sempre “Felice sera”. Questo non significa buona notte perché viene detto dal domestico che ti serve a tavola e va avanti e indietro nell’ora successiva, e che ti saluta per la notte con un “Felicissima notte”. È evidentemente inteso come un buon augurio per la sera ed è, oserei dire, legato a qualche superstizione che non conosco.
In realtà non era affatto un detto lombardo e non c’entravano le superstizioni. La scrittrice irlandese Mabel Sharman Crawford, nel suo Vita in Toscana (1859), ritrova questa distinzione tra “sera” e “notte” anche a Viareggio. Quando dopo una giornata in giro Mabel torna nella casa della famiglia che la ospita:
Tutti si alzano in piedi al nostro avvicinarsi, tutti ci augurano “Felice sera” in un sospiro […] Violante si affretta a portare le lampade: saliamo le scale e dopo aver scambiato qualche parola con altri affittuari, due signore lucchesi le cui stanze sono attigue alle nostre, seguiamo il loro esempio nel prepararci a cercare riposo.
“Felicissima notte”, dice Violante, nel dialetto dolce della Toscana; “Felicissima notte”, rispondo io e, presto, dopo essermi arrampicata sulle ripide altitudini della mia cuccetta, e dopo aver guadagnato la soffice e riparata cima del mio Monte Bianco, auguro felicissima notte a Viareggio e al mondo intero.
Forse questa espressione è scomparsa insieme al gesto che di solito accompagnava, quello di portare una lampada in camera prima di andare a dormire. E in effetti non l’ho mai trovata citata dagli artisti che visitarono l’Italia ormai elettrificata del ‘900.
Chiudiamo con un estratto da una lettera di Percy Shelley, scritta da Pisa nell’agosto del 1821, dove il poeta inglese improvvisa una poesia in italiano, che si intitola guarda caso…
BUONA NOTTE.
“Buona notte, Buona notte!” — Come mai
La Notte sarà buona senza te?
Non dirmi buona notte; chè tu sai
La notte sà star buona da per sè.
Solinga, scura, cupa, senza speme,
La notte, quando Lilla m’abbandona;
Pei cuori che si batton insieme
Ogni notte, senza dirla, sarà buona.
Come male buona notte si suona
Con sospiri e parole interrotte! -
Il modo di aver la notte buona
È mai non di dir la buona notte.
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immediatamente mi è tornato in mente Mario Merola che interpreta un classico della canzone napoletana (autore Libero Bovio, 1928) ovvero 'zappatore' e dalla canzone è stato poi tratto un film, piuttosto recente: inizia proprio con 'felicissima sera' :-D
https://www.youtube.com/watch?v=KiO-LnyZz5Y
Non ho mai sentito l’espressione “Felicissima notte,” però penso di cominciare ad usarla! Che bel sentimento!