Gli ultimi giorni di John Keats
Il giovane poeta arrivò a Roma nel novembre del 1820, per morire di tubercolosi pochi mesi dopo. Ad assisterlo, e a raccontare la sua agonia, c'era il suo compagno di viaggio, il pittore Joseph Severn
Temo che il nostro povero Keats sia allo stremo. Non posso lasciarlo un momento da solo. Siedo accanto al suo letto e leggo per lui tutto il giorno, e di notte lo assecondo in tutti i suoi deliri. Ora si è appena addormentato, per la prima volta in otto notti, e solo per sfinimento. Spero che non si svegli prima che io abbia scritto questa lettera.
Così inizia la cronaca degli ultimi giorni del poeta John Keats, narrata nelle lettere di Joseph Severn, giovane pittore inglese e suo compagno di viaggio: una lenta agonia trascorsa in una stanza al numero 26 di piazza di Spagna, a Roma1. La storia dell’amicizia tra John Keats e Joseph Severn, tra il poeta e il pittore, è una delle più toccanti tra quelle incontrate nel lavoro di ricerca per il mio fumetto, ed è un viaggio in Italia dove l’Italia non compare praticamente mai.
Keats era malato di tubercolosi probabilmente già da molto tempo, ma la malattia non era stata correttamente diagnosticata - si pensava a un problema al fegato - e i medici gli avevano consigliato un soggiorno in un clima più caldo di quello inglese. Seguendo l’esempio di Shelley (con cui Keats si era anche scambiato qualche lettera) e di Byron, anche loro in Italia proprio in quegli anni, il poeta aveva deciso di lasciare l’Inghilterra per l’Italia. Ad accompagnarlo c’era appunto Joseph Severn: i due erano già amici e il pittore aveva ritratto Keats nel 1819.
Keats e Severn all’epoca avevano rispettivamente 25 e 26 anni. Erano salpati insieme dall’Inghilterra nel settembre del 1820. “Sono molto impaziente di salire a bordo - scrisse John alla sorella Fanny poco prima di imbarcarsi per l’Italia - perché si suppone che l’aria di mare mi sia di grande beneficio. La mia intenzione al momento è di stare a Napoli per un po’ e poi proseguire per Roma”.
Ma già l’arrivo in Italia fu caratterizzato da un cattivo presagio: la nave su cui avevano viaggiato fu costretta a rimanere in quarantena per dieci giorni, ancorata nella baia di Napoli, in seguito a una sospetta epidemia di colera in Inghilterra. Scrive Keats: “È stata una sfortuna per me che tra i passeggeri ci fosse una giovane lady affetta da tubercolosi - la sua imprudenza mi ha molto infastidito - l’udire i suoi lamenti, il rossore sul suo volto, tutti i suoi sintomi mi hanno causato angoscia, l’avrebbero fatto anche se fossi stato in buona salute”.
Sbarcati finalmente a Napoli il 1 novembre 1820, i due amici arrivarono a Roma il 14 novembre, dove la salute del poeta si aggravò molto in fretta. L’ultima lettera di Keats è datata 30 novembre: qui descrive i forti dolore allo stomaco, e “la sensazione costante che la mia vita reale sia passata, e che io stia conducendo ora un’esistenza postuma”. C’è anche un pensiero per l’amico che lo accompagna: “Severn sta bene, anche se stando con me conduce una vita molto noiosa”.
Una mattina, pochi giorni dopo, la situazione precipitò improvvisamente, come racconta Severn in una lettera:
In apparenza stava bene ed era insolitamente su di morale, quando improvvisamente lo colpì un attacco di tosse e vomitò due tazze di sangue. Subito chiamai il Dr. Clark, che capì la situazione e immediatamente gli tolse 8 once di sangue dal braccio; era nero ed estremamente denso. Keats era molto allarmato e demoralizzato. Oh, che giornata terribile ho passato con lui! Saltò fuori dal letto e disse “questo sarà il mio ultimo giorno”, e se non fosse stato per me certamente lo sarebbe stato. A rischio di perdere la sua fiducia, tolsi di mezzo ogni oggetto con cui potesse farsi del male, e non lo persi di vista per un minuto.
Le lettere di Severn sono interessanti perché ci mostrano quanto la medicina fosse ancora arretrata (qui il Dr. Clark ha appena fatto un salasso!) e quanto la paura del contagio, che oggi abbiamo re-imparato a conoscere, fosse diffusa.
Adesso siamo al nono giorno, e non c’è stato nessun miglioramento. Per cinque volte ha tossito sangue, in grandi quantità e in genere di mattina, e la sua saliva è mescolata a sangue per quasi tutto il tempo. Ma questo è il male minore se comparato con il suo stomaco. Non digerisce nulla. […] Lo stato della sua mente poi è la cosa peggiore - disperazione in ogni forma. La sua immaginazione e la sua memoria gli presentano ogni immagine in uno scenario di orrore, così forte che giorno e notte tremo per la sua ragione.
Nei giorni seguenti la tosse e il dolore allo stomaco migliorarono un po’, ma il morale di Keats era allo stremo, la disperazione si era ormai impossessata di lui. Scrive Severn:
Non sopporta l’idea di vivere, ancora meno quella di lottare per vivere. […] Dice che la continua tensione della sua immaginazione l’ha ucciso e se mai dovesse riprendersi non potrebbe scrivere un solo verso. […] Tutti i guai, le persecuzioni e oserei dire le crudeltà che ha sopportato ora premono pesantemente su di lui. Se muore, sarò testimone che è morto per un cuore e uno spirito spezzati.
Anche Keats era stato molto maltrattato dalla critica inglese: la sua raccolta di versi Poems (1816) aveva attirato diverse cattive recensioni: Shelley, addirittura, si convinse che era stata proprio una di queste recensioni a causare la morte di Keats, e fu tanto colpito dalla morte del giovane poeta - lo considerava “un rivale che mi sorpasserà di molto” - da dedicargli il poema Adonais2.
Ma torniamo alle parole di Severn, che qui si scaglia contro le autorità italiane (sarebbe meglio dire vaticane) e le loro misure anti-contagio:
Il dottore mi ha avvisato in questo momento che la mia padrona di casa ha denunciato alla polizia che Keats sta morendo di tubercolosi. Questo mi ha fatto lanciare una serie di maledizioni contro di lei. […] Le leggi sono molto severe. Non so fino a dove si spingano. Se Keats dovesse morire, tutto in questa stanza è destinato a essere bruciato, anche la carta da parati. Gli italiani sono così terrorizzati dalla tubercolosi. Le spese dopo una morte sono enormi a causa degli esami e delle precauzioni contro il contagio. Sciocchi.
Verso i primi di gennaio del 1821 la salute di Keats sembrò migliorare. Severn può allora scrivere una lettera più speranzosa, approfittandone per descrivere come lui aveva vissuto tutto l’ultimo periodo:
Per tre settimane non l’ho mai lasciato. Sono stato sveglio di notte. Ho letto per lui tutto il giorno e a volte anche di notte. Accendo il fuoco, gli preparo la colazione a volte sono anche obbligato a cucinare, a rifare il suo letto e a spazzare la stanza. […] Ma con mia grande sorpresa non sono malato, e nemmeno stanco, e non lo sono mai stato. Non esiste nient’altro tranne quello che posso fare per lui.
Ma il miglioramento fu solo temporaneo. Pochi giorni dopo, Severn scrive:
Il povero Keats si è appena addormentato. L’ho sorvegliato e ho letto per lui fino al suo ultimo battito di ciglia. Prima mi ha detto: “Severn, riesco a vedere che sotto il tuo aspetto tranquillo ti tormenti e lotti. Non sai cosa stai leggendo. Sopporti per me più di quello farei io. O! Che venga la mia ultima ora. Cosa ti turba ora? Cosa succede?”. Gli dico “non succede niente, niente mi preoccupa oltre a quello che vedi, che è stata una giornata noiosa”. Parlo di me, della sua guarigione, e poi della mia pittura, e poi dell’Inghilterra, e poi - ma sono tutte bugie. […] Perché Keats sta sprofondando di giorno in giorno. Sta morendo per una tubercolosi, una tubercolosi accertata.
Infine, il 23 febbraio:
Se ne è andato - è morto nella più perfetta tranquillità - sembrava che si stesse addormentando. Il 23 febbraio, verso le 4, l’avvicinarsi della morte si fece chiaro. “Severn - io - sollevami - io sto morendo - morirò in pace - non aver paura - sii forte, e ringrazia Dio che è finita!”. L’ho sollevato tra le mie braccia. Il muco sembrava bollire nella sua gola, e aumentò fino alle 11, quando gradualmente è scivolato nella morte - così dolcemente - che pensavo ancora che stesse dormendo.
Ora non riesco a raccontare - sono a pezzi dopo quattro notti di veglia, e niente sonno da allora, e il mio povero Keats se n’è andato.
Severn si occupò della sepoltura dell’amico nel cimitero degli inglesi a Roma. I mobili della stanza di Keats furono realmente bruciati, in un falò improvvisato in piazza di Spagna, da “quei bruti di italiani”.
A volte durante i suoi ultimi giorni, [Keats] mi faceva andare a visitare il luogo dove sarebbe stato sepolto, e esprimeva piacere quando descrivevo il posto, con la Piramide di Caio Cestio, e l’erba e i molti fiori, in particolare innumerevoli violette, e un gregge di capre e pecore e un giovane pastore - tutte queste cose lo interessavano intensamente. Le violette erano i suoi fiori preferiti e gioiva nel sentire come crescevano tra le tombe. Mi assicurò che “già gli sembrava di sentire i fiori crescere sopra di lui”. […] Chiese che facessi incidere sulla sua lapide come unica iscrizione, non il suo nome, ma semplicemente “Here lies one whose name was writ in water” [Qui giace una persona il cui nome era scritto nell’acqua].
Dopo la morte di Keats, Severn rimase a Roma altri vent’anni, fino al 1841, quando decise di fare ritorno in Inghilterra. E passarono ancora altri vent’anni, quando, nel 1861, il pittore si spostò nuovamente a Roma, stavolta in veste di console3. Alla sua morte, nel 1879, fu sepolto4 accanto al suo amico, il poeta John Keats.
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Ora c’è un museo, la Keats-Shelley House, dove tra le altre cose si può visitare la stanza dove visse il poeta.
Percy Shelley morì in un naufragio poco tempo dopo, nel luglio del 1822. Il suo corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e identificato anche grazie al volume di poesie di Keats che aveva in tasca. Ho scritto e in parte disegnato questa scena in questo post (solo per abbonati). Anche Shelley è sepolto a Roma, nello stesso cimitero di Keats.
E questo meriterebbe almeno un’altra puntata su Joseph Severn: nel 1861 l’Italia era appena stata unificata, ma Roma era ancora governata dal Papa.
Vedi la foto sul sito del cimitero acattolico di Roma.