Il diavolo a Palestrina
Nel romanzo "Doctor Faustus" Thomas Mann fa comparire Satana in una cittadina a due passi da Roma, dove visse per un po' insieme al fratello Heinrich e dove iniziò a scrivere "I Buddenbrook"
Pensavo che il diavolo si potesse ormai incontrare solo nei crossroad lungo il corso del Mississippi, come accadde secondo la leggenda al bluesman Robert Johnson. Non mi aspettavo di vederlo comparire in una tranquilla cittadina sui Colli Sabini, a due passi da Roma. Eppure è proprio qui, a Palestrina, che Thomas Mann fa entrare in scena Satana nel suo romanzo Doctor Faustus (1947).
Il romanzo racconta la vita del compositore Adrian Leverkhün: a ricostruirla e a narrarla è il suo amico d’infanzia Serenus Zeitblom. Nella parte di storia che ci interessa qui, Adrian è ancora a inizio carriera e si trova in Italia: ha passato l’inverno a Roma insieme all’amico scrittore Rüdiger Schildknapp, poi con l’arrivo del caldo i due hanno cercato rifugio in collina. Il narratore Zeitblom li raggiunge.
La città era Palestrina, luogo di nascita del compositore1 - chiamata Praeneste dagli antichi e menzionata da Dante nel Canto XXVII dell’Inferno2 come Prenestino, la roccaforte dei principi Colonna - un pittoresco insediamento adagiato contro la sua montagna e accessibile dalla chiesa sottostante solo tramite una salita di bassi gradini non molto ordinati e distesi all’ombra delle case. Un gruppo di maialini neri correva libero su questi gradini, e un pedone poco attento si sarebbe potuto facilmente trovare schiacciato contro la parete dagli ingombranti bagagli degli asini pesantemente carichi che egualmente passavano su e giù dalla scalinata. Oltre la città, la strada diventava un sentiero di montagna che passava da un monastero di Cappuccini e arrivava, in cima, alle poche rovine di un tempio, vicino alle quali c’erano anche i resti di un antico teatro.
Adrian e Rüdiger alloggiano nella grande casa della famiglia Manardi, “quasi un palazzo o un castello”, ed è nelle sue sale che un giorno dopo pranzo compare il diavolo. Nel raccontare l’incontro il narratore riporta il manoscritto segreto di Adrian.
D’improvviso sono colto da un freddo pungente, come chi sedesse in una stanza riscaldata per l’inverno e di scatto una finestra si aprisse sul gelo. Ma non veniva da dietro, dove sono le finestre, piuttosto cade su di me dal davanti. Alzando gli occhi dal mio libro, lancio uno sguardo nella stanza, per vedere se Sch. [cioè l’amico Rüdiger Schildknapp] non sia già tornato e quindi io non sia più solo. C’è qualcuno nella penombra, seduto sul divano che sta con tavolo e sedie più vicino alla porta, verso il centro della stanza, dove di mattina facciamo colazione - siede a un angolo del divano, le gambe accavallate, ma non è Sch., è un altro, più piccolo di lui, non molto attraente da lontano, e di sicuro non un gentiluomo. Ma il freddo continua a ferirmi.
“Chi è costà!”, è ciò che esclamo con la gola un po’ strozzata, poggiando le mie mani sui braccioli della sedia, di modo che il libro cade dalla mie ginocchia sul pavimento. La ferma, lenta voce dell’altro risponde. Era una voce educata, con una piacevole risonanza nel naso: “Parla solo tedesco! Serviti solo del buon vecchio tedesco, niente finte, niente fronzoli. Io lo capisco. Detto onestamente, è la mia lingua preferita”.
È infatti un diavolo tedesco fino all’osso, questo. Anche se non rivela mai il suo nome - dice solo “non posso essere che Uno”. E dunque Adrian è molto sorpreso di trovarselo davanti in una piccola cittadina italiana, tanto da non credere alla sua effettiva presenza.
Mi hai cercato qui nell’aliena Italia tra tutti i posti, dove sei molto fuori dal tuo regno e non hai la minima popolarità? Che comportamento assurdo! A Kaisersachern ti avrei sopportato. A Wittenberg o a Wartburg, perfino a Lipsia ti avrei trovato credibile. Ma di certo non qui, sotto un barbaro cielo cattolico!
Il diavolo ha ovviamente la risposta pronta:
Mi sottovaluti nel limitarmi in questo modo, nel voler fare di me nient’altro che un tedesco provinciale. Tedesco sono, tedesco fin al midollo, se vuoi, ma nel senso più antico e migliore: cosmopolita nel cuore. Mi faresti un torto nel non riconoscermi l’antico desiderio tedesco e la voglia romantica di viaggiare nelle belle terre d’Italia!
Insomma anche il diavolo sta facendo un viaggio in Italia! Nel romanzo, l’incontro si risolve con il classico patto: l’anima di Adrian in cambio del talento e della fama. Chissà, forse c’è un tocco autobiografico anche in questo scambio, dato che Thomas Mann cominciò a scrivere il suo primo capolavoro, I Buddenbrook (1901), proprio a Palestrina, dove visse per un po’ insieme a suo fratello Heinrich (proprio come Adrian e il suo amico Rüdiger).
Questa coppia di scrittori potrebbe benissimo occupare vari post di questa newsletter, tanto sono profondi i loro legami con l’Italia - basterebbe ricordare che Thomas è l’autore della novella La morte a Venezia (1912), da cui nel 1971 Luchino Visconti trasse l’omonimo film. Qui vorrei però concentrarmi sul periodo che i fratelli Mann passarono insieme a Roma e soprattutto a Palestrina. Come mai finirono proprio lì rimane per me un mistero, tuttavia Palestrina deve avere avuto una particolare importanza per entrambi, visto che sia Thomas che Heinrich la inserirono poi nelle loro opere, anche a molti anni di distanza.
Thomas Mann fece diversi viaggi in Italia tra il 1895 e il 1901. Visitò Venezia, Ancona, Napoli, Firenze, ma la sua base era Roma - e Palestrina nei mesi più caldi - dove già si trovava il fratello Heinrich. All’epoca erano entrambi ventenni. Soggiornarono a Palestrina due volte, nell’estate del 1895 e in quella del 1897. La Casa Bernardini, la pensione in cui alloggiavano, è andata distrutta durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, ma miracolosamente si è salvato il libro degli ospiti, che riporta ancora i nomi dei fratelli Mann. La strada di bassi gradini descritta da Thomas in Doctor Faustus è ora intitolata proprio a lui.
Nella sua autobiografia Lebensabriß (1930, “Riassunto di una vita” potremmo tradurlo), Thomas ricorda il periodo passato in Italia.
Mio fratello Heinrich, quattro anni più vecchio di me, che poi sarebbe divenuto l’autore di così importanti e significativi romanzi, si trovava a Roma e, come me, “aspettava il suo momento”. Suggerì che mi unissi a lui, e lo feci: vivemmo come pochi tedeschi fanno, attraverso una lunga, torrida estate italiana, in una piccola cittadina sui Colli Sabini - Palestrina, luogo di nascita del compositore.
L’inverno, col suo alternarsi di giorni di tramontana tagliente e di umido scirocco, lo passammo nella Città Eterna, affittando delle stanze da una vecchia signora che aveva un appartamento con pavimenti di pietra e sedie di vimini su via di Torre Argentina. Consumavamo i nostri pasti in un piccolo ristorante chiamato Genzano - ho provato a rintracciarlo da allora ma non sono riuscito a trovarlo - dove trovavamo buon vino e delle superbe “crocchette di pollo”. Di sera andavamo al caffè, giocavamo a domino, e bevevamo punch. Non facemmo nessuna amicizia. Se sentivamo parlare tedesco, scappavamo via.
Guardavamo a Roma come al rifugio per la nostra irregolarità, e io, almeno, vivevo lì non per il fascino del sud, che in fondo non amo, ma semplicemente perché non c’era ancora posto per me a casa. Accettavo con rispetto le impressioni storiche ed estetiche che la città aveva da offrire, ma raramente mi sembrava che mi riguardassero o che adesso un valore immediato per me.
Una descrizione più o meno identica si ritrova in uno dei primissimi racconti di Thomas Mann, Desiderio di felicità (1896), dove a un certo punto il narratore ci informa che “l’anno scorso soggiornai in Italia, a Roma e nei dintorni. Passati in collina i torridi mesi estivi, feci ritorno in città.” Nello stesso racconto, Thomas ci dà questa descrizione di Roma, con alcune analogie ma anche qualche differenza rispetto al modo in cui la ricorderà nel 1930:
Roma, questo museo rigurgitante di testimonianze di ogni arte, questa moderna metropoli del sud, questo agglomerato brulicante di vita fervida, chiassosa, concitata, ma sul quale il caldo alito del vento riversa l’afosa estenuazione dell’Oriente.
Desiderio di felicità compare nella prima raccolta di racconti di Thomas Mann, Il piccolo signor Friedemann, che uscì nel 1898, proprio mentre lo scrittore si trovava a Roma: “Potevo ‘vedermi’ nelle librerie romane”. È l’inizio di una carriera letteraria che porterà Thomas a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1929.
Heinrich non era allo stesso livello del fratello, ma scrisse il racconto Professor Unrat (1905), da cui poi fu tratto il celebre film L’angelo azzurro, con Marlene Dietrich (1930). Di certo è più famoso per l’impegno con cui si oppose all’ascesa dei nazisti, che infatti lo dichiararono persona non grata e bruciarono i suoi libri.
Anche Heinrich rievocò il periodo passato a Palestrina nel suo romanzo del 1909 La piccola città. Anche se non è nominata esplicitamente, si tratta proprio di Palestrina. In apertura del romanzo Heinrich ci offre uno spaccato di vita quotidiana che penso potremmo riconoscere anche oggi. Alcuni abitanti, seduti al Caffè Progresso nella piazza centrale del paese, stanno rievocando i loro trascorsi al seguito di Garibaldi - “Il Generale era un leone”, dice uno; “Ma era anche un angelo”, risponde un altro - vengono interrotti da forti rumori che provengono dal vicolo accanto.
Improvvisamente si ricordarono che quella storia era molto vecchia, e che tutti loro, anche il commesso viaggiatore, la conoscevano bene come conoscevano Lucia, la pollaiola. Era proprio il suo momento, e già le sue scarpe di legno stavano sciabattando giù per il vicolo di fianco al Caffè. Con quel suo chiocciare, più chiassoso del chiocciare dei suoi polli, e il suo naso, più aguzzo del becco di una gallina, sbattendo le sue lunghe braccia, guidava il suo gregge piumato alla fontana e lo lasciava bere dalla vasca. I bambini si affollarono attorno a lei, gridando, spintonando, tirandole la gonna, e saltando con gioia quando la vecchia signora, nei suoi vari stracci, come un’alta e disordinata gallina, si dimenava disperatamente in tutte le direzioni. I vicini spalancarono le imposte; all’angolo che dà di lato al Caffè, tre ufficiali, passando lungo i portici del Municipio, si premettero nella nicchia di una delle vecchie finestre; la robusta Mama Paradisi guardava giù da casa sua; dietro, nel Corso, Rina, la piccola cameriera del tabaccaio, spinse fuori la testa e l’avvocato Belotti notò che indossava un foulard nuovo. “Chi può averglielo regalato stavolta?”, meditava, non senza preoccupazione. Nel frattempo Rina aveva chiuso la finestra, e Mama Paradisi aveva chiuso la sua. Lucia e tutto il baccano che aveva causato erano svaniti lungo il vicolo fino al giorno dopo.
La Piazza si assopiva di nuovo nella luce bianca del tramonto, spezzata da angoli di ombra. Quella del Palazzo Torroni all’ingresso del Corso si stendeva sulla cattedrale, e prima della facciata ad arco della chiesa le figure dei due leoni che portavano le colonne sulla schiena venivano riprodotte in nero sul selciato. L’ombra del campanile, con il suo contorno frastagliato, si allungava fino alla fontana. Di fianco alla torre, però, la luce del sole aveva invaso tutto tranne l’angolo più lontano, dove stava la casa del mercante, Mancafede. Lì era così scuro che i contorni delle finestre erano a malapena distinguibili, ma era certo che dietro una di quelle finestre stava ora, come stava sempre, non vista, l’enigma della città - Evangelina Mancafede, che non usciva mai ma che sapeva tutto quel che accadeva, e lo sapeva prima di chiunque altro.
Negli anni successivi, tornati in Germania, Thomas e Heinrich avranno anche dei dissidi importanti. Ma alla fine si riconciliarono e queste qui sotto sono le righe che Thomas scrisse nel 1931, per i 60 anni del fratello Heinrich.
Essere fratelli - significa essere ragazzi insieme in un rispettabile angolo di provincia della madrepatria e farsi gioco di quel rispettabile angolo di provincia; significa condividere la libertà, l’irrealtà, l’essenziale purezza, l’assoluta bohème della gioventù. E poi, ognuno per conto proprio, ma sempre nel contesto di un legame organico e in reciproco scambio intellettuale, significa crescere, maturare in una vita affrontata sempre con la stessa radicale ironia, maturare soprattutto attraverso il lavoro […] E nei momenti di speciale commozione in cui le cose si avverano, cose incredibili se viste dalla prospettiva dell’infanzia, significa trovare ciascuno la strada della propria esistenza individuale, e poi trovare insieme la via del ritorno e sorridere, e dirsi l’un l’altro, se non con la voce piuttosto con gli occhi, “Chi l’avrebbe mai immaginato?”
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Giovanni da Palestrina, compositore di musica sacra vissuto nel 1500.
Anche il Doctor Faustus inizia con una citazione di Dante, dal Canto II dell’Inferno.