Il papà di Goethe
Johann Caspar Goethe visitò l'Italia nel 1740 e la descrisse in un libro (scritto in italiano!). E con i suoi racconti, in particolare su Venezia, trasmise la stessa passione al figlio Johann Wolfgang
E pensavo al mio caro padre, che non poteva fare a meno di raccontare delle cose che aveva visto in Italia.
Quando Goethe arrivò a Venezia, nel settembre del 1786, la sua mente corse subito a suo padre, Johann Caspar Goethe, che aveva visitato quegli stessi luoghi molti anni prima, nel 1740. Da Venezia, in particolare, Goethe padre aveva portato il modellino di una gondola, con cui il figlio giocava e che fin dall’infanzia cominciò a far crescere in lui il desiderio di vedere l’Italia.
Ma ho scoperto relativamente di recente che anche Johann Caspar aveva scritto un libro sul suo viaggio in Italia. Lo intitolò Viaggio per l’Italia e lo scrisse direttamente in italiano1. Come spiegò lui stesso nell’introduzione:
Cominciai, col mettere il piede nello stato veneziano, a scrivere queste mie osservazioni in italiano, il che non poco contribuì per acquistar una certa facilità in questa lingua, lusingandomi d’essere in ciò forse il primo che offerisce una descrizione intiera di tutta l’Italia nella lingua del paese stesso.
È un italiano un po’ buffo, a dire la verità, ma Goethe padre non se ne curava:
Non si parlerà mai ben, che dopo aver parlato male, cosicché non mi curavo de’ miei barbarismi, come anche del cattivissimo stile con cui fin'ora ho avuto l’onore di presentarle gli avvenimenti del mio viaggio.
Il Viaggio per l’Italia è strutturato come un insieme di lettere scritte a un (a noi) ignoto destinatario: potrebbe essere un espediente narrativo o no, non lo sappiamo, ma è curioso notare che Goethe figlio, nel suo Viaggio in Italia, fece l’operazione inversa, trasformando vere lettere in un racconto di viaggio.
Nel 1740 Johann Caspar aveva 30 anni e non era ancora “il papà di Goethe” e non era nemmeno sposato. Johann Wolfgang sarebbe nato solo nel 1749, e così Johann Caspar era all’epoca un ricco scapolo di buona famiglia laureato in legge, insomma il perfetto viaggiatore del Grand Tour. Il suo itinerario in effetti fu quello classico: Venezia, poi giù verso Roma passando da Bologna, Ancona e Loreto, poi Napoli e tornando al nord una sosta a Firenze; di nuovo Venezia, poi Milano e Torino per imbarcarsi infine a Genova alla volta di Marsiglia. Io però mi sono concentrato solo sul suo soggiorno a Venezia, incuriosito dalle parole di Goethe che ho riportato all’inizio.
Per noi dire 1740 o 1786 non fa molta differenza, ma naturalmente per chi ci viveva dentro le cose erano molto diversa. Il 1740 è il trionfo delle monarchia assolute, è proprio l’anno in cui salgono al trono Federico II in Prussia e Maria Teresa in Austria; nel 1786 invece la Rivoluzione francese già comincia a prepararsi, quella americana si è appena conclusa. La Repubblica di Venezia per tutto il ‘700 visse un lento e inesorabile declino, ma all’epoca del viaggio di Goethe padre - la stessa di Giacomo Casanova - forse la decadenza era ancora camuffata dallo sfarzo. Goethe figlio vide invece gli ultimi anni della Repubblica, che nel 1796 sarebbe stata lasciata da Napoleone agli austriaci.
Ho l’impressione che il viaggio di Johann Caspar sia molto più “antico” rispetto a quello del figlio. Forse perché inizia con la peste. Goethe padre arrivava infatti da Vienna…
…senza pensare che la peste spopolava in Turchia e si faceva sentire nei confini d’Ungaria. Venendo dunque da quella parte di Vienna, preso fui, entrando nello stato veneziano, per uno che portasse seco qualche malattia contagiosa.
Il nostro viaggiatore fu costretto quindi a un mese di quarantena in una sorta di albergo-prigione, dalla quale uscì con “una barba da cappuccino”.
Ma che cosa non vien vinta e superata da quel desio d'entrar nei paesi stranieri? Non si pensa certo alle incomodità che occorrono in viaggio, almeno non se ne fa gran caso.
Già in questo primo ingresso Goethe padre venne in realtà truffato. La sua quarantena nella fortezza di Palmanova fu prolungata di otto giorni senza ragione, o meglio per un’ottima ragione: gli internati pagavano uno zecchino al giorno per vitto e alloggio, e più rimanevano più pagavano.
Partii da questo luogo maledetto con allegrezza, non avendo altra sodisfazione del mio denaro spesovi malgrado me, che di veder alcune settimane dopo il direttore col mio guardiano in Venezia durante il Carnevale far ancora pompa de’ miei bezzi lasciatigli.
A Venezia, nel febbraio 1740, era dunque “tempo di maschere”, e Goethe padre capì in fretta che “chi è senza maschera vien poco stimato”.
Fui obbligato a prender simile arnese, cioè un tabarro, un volto e la bautta: e cosi vestito alla sciocca maniera veneziana, ritornai da persona privilegiata e con tanta fierezza entrai da per tutto, che parevo nato fra le maschere.
Anche qui possiamo notare un parallelo tra Goethe padre e figlio: il primo, una volta procuratosi una maschera, è libero di muoversi per Venezia e di osservare usi e costumi degli abitanti senza dare nell’occhio; il secondo provò a ottenere lo stesso effetto viaggiando in incognito.
La Venezia descritta da Johann Caspar ha l’aria di un luogo pieno di sfarzo e allo stesso tempo sudicio, dove tradizioni sanguinarie si mescolano a costumi libertini. In piazza San Marco il nostro viaggiatore ebbe modo di assistere alla festa dei tori, abolita a inizio ‘800, ma allora “spettacolo spaventosissimo per chi lo vede la prima volta e massimamente dagli Spagnoli molto stimato”.
Si fecero entrar nello steccato venti tori ed un numero proporzionato di grandissimi cani, onde cominciò ad un subito tra queste bestie una caccia, come è facile immaginarsi, orrenda. I gridi di più che cinquantamila maschere mi fecero un tal spavento, che li capelli mi si rizzarono.
Durante il Carnevale davvero tutte le regole saltavano. Anche a teatro. Goethe padre andò a sentire Adriano in Siria di Giovanni Battista Pergolesi al teatro San Giovanni Crisostomo (oggi teatro Malibran).
Poca gente si vede sul piano nei teatri, per non esser sicuro dallo sputo e dalle immondizie che cadono dalle logge in giù; costume detestabile e soltanto in Venezia usitato, i di cui abitatori la maggior parte vivere può dentro nella sporcheria sì come la salamandra nel fuoco.
La sporcizia regnava sovrana in questa Venezia di metà Settecento, e Johann Caspar non potè non notarla, ad esempio questo è quello che accadeva di fianco a Palazzo Ducale:
Sebbene il palazzo sia un edificio da re e molto superbo, i Veneziani però, piccoli e grandi, salvo il dovuto rispetto, pisciano ove vogliono, senza minimo impedimento, cosi sotto i portici come per le scale, la quale sucidezza salta al naso dei male pratici di questa città. Per rimediare a questa sporchezza vi sono molti vasi, ma i Veneziani non ne fanno caso: anzi verso il canale a basso sotto l’entrata principale non si vergognano di calar giù i calzoni, quand'anche il Doge enti asse per quella porta dell’acqua.
Verso sera arrivava poi l’ora del gioco d’azzardo, il momento giusto per recarsi in un “Ridotto”:
Ridotto è una radunanza d’una infinità di maschere, non essendo lecito entrarvi altrimenti, le quali giocando alla bassetta2 molti ricchi vengono ridotti dalla fortuna ad una gran povertà. È un palazzo per cui si passa incirca per venti stanze, saloni e camere, tutte piene di giocatori, e questi sono i nobili soli che tengono la banca, e ciascuno sta preparato dietro una tavola, coperta quasi d’oro e d’argento, ch’è l’esca per acchiappare quegli uccelli semplici, colla moglie del banchiere o sua dama che fa la guardia acciocché nessun guadagno scappi.
Negli ultimi giorni del Carnevale le maschere si facevano sempre più strane e dalla descrizione di Johann Caspar sembrano quasi più adatte ad Halloween!
Il Carnevale va sul fine. Tutta la città pare ebra e frenetica nelle sciocchezze, di modo che son diventato di stucco per lo stupore ed orrore. Corre certo in questo tempo tra i Veneziani una si fatta emulazione che anche in pazzie danno nell’eccesso e trapassano il limite dell’onesto. In fatti non si contentano di contraffare colla maschera ogni sorta di personaggi, come pastori, e pastorelle, giardinieri, bifolchi, Americani, Africani, nobili di Venezia ed altri che l’ingegno umano può imaginarsi: ma non si vergognano di travestirsi da ammalati, feriti, stroppiati, pezzenti, co’ cenci sozzi inviluppati, spruzzati di sangue, e comparir cosi in quei luoghi più frequentati per esser ammirati ovvero abborriti da quei che avanti di loro passano.
O che bestiale divertimento !
Dopo aver visitato Roma, Napoli e Firenze, Goethe padre tornò a Venezia nel giugno del 1740 per la festa dell’Ascensione, che coincideva con lo Sposalizio del mare, la cerimonia in cui il Doge a bordo del Bucintoro “sposava” l’Adriatico gettandovi un anello, a simboleggiare il dominio di Venezia sull’acqua. Anche in questa occasione in città era “tempo di maschera”, anche se in modalità diverse da quelle del Carnevale.
A luglio però, finita la festa, Venezia tornava alla normalità, cambiando radicalmente faccia.
Sino che il Carneval e la Scenza [la festa dell’Ascensione] durò, Venezia era simile ad un formicaio, occupata nel negozio e nei piaceri. Appena l’un o l’altro finito, la città pare esser priva d’ogni vivente e scarsa d’abitanti per le strade ed altri luoghi pubblici. Simil cambiamento è facile a capirsi. Le dame, in tempo di maschere, godendo pienissima libertà, escono dai loro nidi e vanno svolazzando sotto maschera. Finito il termine privilegiato di divertirsi pubblicamente, ricominciano a ritirarsi, e, quei che hanno poderi e casini sulla Brenta ed altrove, cambiano di dimora e si ritirano in campagna, per dove i forastieri vanno anche regolarmente, perché in questo tempo partono affatto.
E se poi giunge il gran calore, che già si sente, l’altra parte resta in casa, ed allora si vede chiaramente come vacua resta la città.