La seconda volta di Goethe
Nella primavera del 1790 lo scrittore fu costretto a tornare per circa un mese a Venezia, ma il suo sguardo stavolta era molto più annoiato e disincantato, come risulta dai suoi "Epigrammi veneziani"
Rubo il titolo a un bellissimo film di Mimmo Calopresti (La seconda volta, 1995) per raccontare del secondo soggiorno di Goethe a Venezia, tra l’aprile e il maggio del 1790. Un periodo che avevo finora trascurato e quasi dimenticato, ma mi è tornato in mente mentre aggiustavo e coloravo le tavole del mio fumetto in cui Goethe si aggira per Venezia. Ma mentre nella sua prima visita del 1786 lo sguardo di Goethe era pieno di meraviglia e commozione, nel 1790 il suo sguardo si fece molto più disincantato, a dimostrazione che tutto sta negli occhi di chi guarda e nello spirito di chi viaggia.
Il fatto è che, nel 1790, Goethe non aveva nessuna voglia di allontanarsi da Weimar. Aveva appena avuto un figlio, August, ed era impegnato in studi di natura scientifica. Ma lo scrittore e poeta tedesco aveva anche incarichi di governo, che in questo caso lo costringevano ad andare incontro alla duchessa Anna Maria, madre del duca di Sassonia-Weimar Karl August, che dal 1788 stava viaggiando in Italia, ispirata e affascinata proprio dalle lettere che lo stesso Goethe aveva spedito al duca nel corso del suo viaggio.
In questa lettera dell’aprile 1790, indirizzata ancora una volta al duca di Weimar, Goethe spiegava bene il suo stato d’animo:
Sono tra gli anfibi e presto mi abituerò… questo viaggio mi ha davvero dato una scossa e mi farà bene nel corpo e nell’anima. Tuttavia devo confessarvi in confidenza che il mio amore per l’Italia ha subito un colpo mortale a causa di questo viaggio. Non che io abbia sofferto nel vero senso della parola, come avrei potuto? Ma il primo fiore della mia inclinazione e curiosità è appassito. Contano anche la mia nostalgia per il mio amore lasciato indietro e per la piccola creatura in fasce.
Il malumore e la noia di Goethe si riflettono negli Epigrammi veneziani, un centinaio di brevi componimenti che il poeta scrisse nella città lagunare e poi di ritorno a Weimar. Gli epigrammi sono contraddistinti da un tono ironico, a volte annoiato, e meno accondiscendente verso i vizi e difetti dell’Italia, che adesso apparivano a Goethe molto più fastidiosi rispetto al suo primo viaggio. A partire dall’epigramma 4 in cui direi che possiamo benissimo riconoscerci1.
È l’Italia che avevo lasciato. La strada è ancora polverosa;:
Lo straniero è sempre raggirato, qualunque cosa faccia.
Inutilmente cercheresti a ogni angolo l’onestà tedesca;
Qui ci sono vita, movimento, ma non ordine e disciplina;
E i governanti, in cambio, si occupano solo di sé stessi.
Terra bellissima, ma non troverò di nuovo Faustina.
Non è più l’Italia che avevo lasciato con rimpianto.
La sensazione che tutto questo secondo viaggio veneziano sia un enorme perdita di tempo emerge abbastanza chiaramente nell’epigramma 8:
Paragono la gondola a una culla che dondola dolcemente,
E la piccola cassa sopra di lei sembra una bara spaziosa.
Corretto! Tra culla e bara dondoliamo e ondeggiamo
Senza pensieri attraverso le nostre vite sul Canal Grande.
In più la primavera del 1790, a Venezia, fu a quanto pare particolarmente piovosa. Epigramma 23:
Rovesciala tutta, bagna le rane dal mantello rosso di Venezia;
Bagna la terra assetata così che possa darci broccoli.
Ma non inzuppare questo mio libbricino, è una piccola ampolla
di puro arrak [una sorta di acquavite], e ciascuno ne fa del punch come preferisce.
E ancora, epigramma 24:
San Giovanni nel Fango è il nome di quella chiesa; Io chiamo Venezia,
oggi con doppia ragione, San Marco nel Fango.
Goethe pare essersi stufato anche dei capolavori dell’arte, epigramma 36:
Mi sono stancato di guardare dipinti in eterno,
Quei meravigliosi tesori dell’arte che Venezia conserva.
Perché anche questo piacere richiede riposo, svago;
Il mio sguardo malinconico cercava gli incanti della vita.
Strega! Cercavo in te l’ideale del cherubino,
Come Giovanni Bellini li ritrasse deliziosi e alati,
Come Paolo Veronese li mandò con le coppe dallo sposo,
I cui ospiti illusi bevevano acqua al posto del vino.
L’ultimo epigramma, il 103, riassume il senso di questi componimenti, che erano essenzialmente un passatempo, nell’attesa di poter tornare a casa.
E così ho perso tempo, diviso da ogni gioia;
Nella città di Nettuno i giorni volavano via come ore.
Tutto quello che ho provato l’ho insaporito col tenero ricordo;
L’ho ravvivato con la speranza: sono le spezie più dolci di tutte.