Le avventure italiane di Mark Twain
Lo scrittore americano fu piuttosto dissacrante e polemico nel suo viaggio in Italia del 1867, ma molti anni dopo visse per un periodo a Firenze, dove provò anche a imparare la lingua
È difficile, per un italiano di oggi, leggere la cronaca del viaggio in Italia di Mark Twain. Lo scrittore americano1 arrivò a Genova nel 1867, a 32 anni, a bordo della Quaker City, nel corso di un viaggio che da New York fece tappa alle Azzorre, poi in Francia, in Italia, a Costantinopoli, in Egitto, fino in Palestina. Twain raccontò tutto nel 1869 nel libro Gli innocenti all’estero - il viaggio dei nuovi pellegrini, che secondo lo stesso Twain era “la cronaca di un viaggio di piacere”. Fu anche, all’epoca, il suo libro di maggior successo. Chissà, forse il libro fu amato proprio per il tono dissacrante che accompagna tutto il racconto, quello di uno yankee che si sente se non superiore, di sicuro “nuovo” rispetto ai vecchi europei.
Twain non si fa impressionare dall’Italia, anzi. Già a Genova se la prende con il tabacco italiano (“Mai fumarlo. Per nessun motivo”), con il culto delle reliquie (“Non è un po’ superato?”), con le guide turistiche e il loro inglese incomprensibile. A Milano, nemmeno il Cenacolo di Leonardo riesce a conquistarlo. È troppo rovinato dal tempo, e per Twain sono meglio le copie che gli aspiranti artisti eseguono davanti all’affresco: forse una volta era meraviglioso ma “era tre secoli fa”. Venezia gli sembra magica alla luce della luna, ma di giorno è “marcia, disperata, piena di povertà e senza commerci". E che dire dell’Arno a Firenze?
Sarebbe un fiume molto credibile se vi pompassero dentro un po’ di acqua2. Lo chiamano fiume e pensano onestamente che sia un fiume, questi dark and bloody fiorentini. Addirittura alimentano l’illusione costruendoci sopra dei ponti.
Non è che non gli piaccia proprio nulla. Ci sono pagine e pagine sul duomo di Milano, e, a Genova, Twain ritiene che ci sia una concentrazione di donne bellissime come non aveva mai visto. A volte è lui stesso a prendersi gioco del proprio fervore polemico, ma dà la colpa alla stanchezza e ai disagi del viaggio, che lo riempiono di pregiudizi. Per esempio, a Napoli:
Questi napoletani chiedono sempre quattro volte il denaro che intendono ottenere, ma se gli dai quello che chiedono in prima battuta, si vergognano di se stessi per aver mirato così in basso, e immediatamente chiedono di più. Quando c’è del denaro da dare o da ricevere c’è sempre un gran chiacchierare e gesticolare.
Ma poi Twain aggiunge:
Si potrebbe pensare che io sia pieno di pregiudizi. Forse lo sono. Mi vergognerei di me stesso se non lo fossi.
Gli innocenti all’estero è pieno di scenette comiche, come quando Mark Twain si perde per le strade di Firenze, o come i bisticci continui con le guide (che evidentemente non si fanno problemi a truffare i ricchi turisti stranieri). Molte di queste sono accompagnate da illustrazioni (probabilmente sono di True Williams, che già aveva lavorato su altri libri di Twain). I disegni a loro volta si basano sulle fotografie stereoscopiche3 realizzate da William E. James, uno dei compagni di viaggio di Twain.
A metà libro, quando ha già visitato Milano, Venezia e Firenze, Twain si prende un intero capitolo per dare il suo parere sul Paese che sta visitando: è un Italia che ha da poco ottenuto l’indipendenza e che si trova in bancarotta. Dove la povertà è diffusissima. Twain se la prende soprattutto con i preti, i frati e la Chiesa:
Per come la vedo io, l’Italia per quindici secoli ha rivolto tutte le sue energie, le sue finanze e tutta la sua laboriosità a costruire una gran varietà di meravigliose chiese, e per realizzarle ha affamato metà della popolazione. Oggi è un grande museo di magnificenza e di miseria. Per ogni mendicante in America, l’Italia può portarne un centinaio […]. È il luogo più miserabile e sfarzoso sulla Terra.
Il libro di Mark Twain è un ottimo esempio dei testi che ho deciso di non utilizzare nel mio fumetto (tranne forse per la descrizione dei carrugi di Genova). A me interessano i viaggi in Italia che producono un cambiamento nel viaggiatore, ma molte di queste cronache, soprattutto quelle ad opera di scrittori inglesi come Charles Dickens o Henry James, sono invece piuttosto superficiali… Sono, come dire, prevenute: non riescono ad andare oltre ai pregiudizi con i quali i loro autori sono partiti. E soprattutto risultano un po’ noiose. È forse la differenza tra chi viaggia “per piacere” e chi invece è spinto da motivi più profondi.
Del resto già Goethe ci metteva in guardia da questo tipo di viaggiatori, quando nel Viaggio in Italia descrive un signore francese incontrato a Venezia:
Viaggia attraverso l’Italia per piacere, ma rapidamente - per poter dire di averla vista […]. Mi ha sorpreso pensare che qualcuno possa viaggiare in questo modo, senza prestare attenzione a niente oltre che a se stesso.
In più, nell’800 il proliferare di libri sui viaggi in Italia doveva averli resi un genere letterario a sé, forse ormai un po’ abusato se nel già nel 1829 il poeta tedesco Heinrich Heine poteva dire:
Non c’è niente di più stupido sulla faccia della Terra che leggere un libro di viaggi in Italia - tranne forse lo scriverlo - e l’unico modo in cui l’autore può forse renderlo tollerabile è di dire dell’Italia il meno possibile4.
Sono abbastanza certo che Mark Twain scrivesse principalmente per divertire i suoi lettori americani5, mettendosi in scena come uno yankee alle prese con le strane abitudini della polverosa Europa. E chissà se gli episodi descritti sono proprio veri!
In ogni caso, quando ormai mi ero rassegnato a non disegnare i baffoni di Twain, ho avuto una sorpresa, come spesso mi capita in queste ricerche: lo scrittore tornò ancora in Italia tra il 1903 e il 1904, alla ricerca di un clima mite che potesse alleviare la malattia della moglie Olivia. E scelse proprio una villa sulle colline sopra Firenze, la città in cui nel suo viaggio del 1867 si era più “arrabbiato”.
Nel soggiorno fiorentino ci sono proprio gli episodi che io cerco. Ad esempio Twain tentò di imparare l’italiano, ma a modo suo: ne nacque un racconto/articolo divertentissimo, intitolato L’italiano senza un maestro. Eccone un estratto (qui la versione in inglese):
I miei aiutanti sono tutti nativi; loro mi parlano in italiano, io rispondo in inglese; io non capisco loro, loro non capiscono me, di conseguenza non si fa nessun danno e tutti sono soddisfatti. Per essere giusto, butto lì una parola italiana quando ne ho una, e questo ha un buon effetto. Prendo la parola dal giornale della mattina. Devo usarla finché è fresca, perché noto che le parole italiane non durano in questo clima. Sbiadiscono verso sera e la mattina dopo sono sparite […]. Per qualche ignota ragione, ho diverse [frasi] che rimangono sempre con me e sono molto utili quando mi trovo in una lunga conversazione e ho bisogno di dare una fiammata nei tratti monotoni. Una delle migliori è “Dov’è il gatto”. Quasi sempre provoca una piacevole sorpresa, così la conservo per le occasioni in cui voglio esprimere plauso e ammirazione.
Al giornalista Raffaele Simboli, che venne a intervistarlo per la rivista The Critic, raccontò che nelle sue passeggiate in città veniva spesso salutato dai fiorentini in modo fin troppo familiare: “Buon giorno, Borzì!”, dicevano, scambiandolo per Antonino Borzì, allora presidente della Società botanica italiana. La somiglianza in effetti è impressionante!
Solo per ricordare che Mark Twain è il nome d’arte, quello vero era Samuel Langhorne Clemens.
Eppure l’ultima alluvione dell’Arno a Firenze risaliva al 3 novembre del 1844.
La stereoscopia era una tecnica fotografica in voga a metà ‘800: gli scatti “a coppia”, visti con una specie di apposito binocolo, permettevano di avere una visione 3D della scena. La maggior parte degli scatti realizzati da James nel corso del viaggio riguardano l’Egitto e la Terra santa: si possono vedere sul sito del Paul Getty Museum. Per saperne di più segnalo anche questa lezione (in inglese), The 19th Century Craze for Stereoscopic Photography.
Cosa che non impedirà ad Heine di raccontare il suo viaggio in Italia, in particolare a Genova e a Lucca, nel Reisebilder (quadri di viaggio) del 1829.
Gli innocenti all’estero nacque inizialmente come una serie di lettere per il quotidiano Alta California, che aveva sponsorizzato il viaggio.