Le isole di Alexandre Dumas
Da Montecristo alle Eolie, passando per Santo Domingo, nei suoi viaggi lo scrittore francese incontrò tutti: il nipote di Napoleone e i pescatori di Alicudi, i matti di Palermo e i detenuti di Vulcano
L’isola di MonteCristo cresceva all’orizzonte.
Montecristo è una piccola isola deserta dell’arcipelago toscano, poco sotto l’Elba. Se non fosse per Alexandre Dumas1, forse il suo nome non ci direbbe nulla. Invece lo scrittore francese la rese famosa in tutto il mondo con il romanzo Il conte di Montecristo (1845). È l’isola in cui il protagonista, Edmond Dantès, trova un favoloso tesoro e di cui si finge conte. In uno scritto di qualche anno dopo, Lo stato civile del conte di Montecristo (1857), Dumas spiega come gli era venuta l’idea di ambientare un romanzo su questa sperduta isoletta. Lo fa per rispondere a una diceria all’epoca molto diffusa.
In Italia si crede generalmente che sia stato Fiorentino2 a fare il Conte di Montecristo. Perché non si crede che sia stato io a fare la Divina Commedia? Ne avrei altrettanto diritto. Fiorentino ha letto Montecristo come tutti quanti, ma non l’ha letto prima degli altri - sempre che l’abbia letto. Gli italiani potranno anche reclamare Montecristo, bisognerà che si accontentino de l’assedio di Firenze di M. D’Azeglio e dei Promessi Sposi di Manzoni.
In effetti Dumas aveva visitato l’isola di Montecristo qualche anno prima della stesura del romanzo, nel 1841, durante un suo soggiorno a Firenze. È uno dei tanti viaggi in Italia che lo scrittore intraprese negli anni ‘30 e ‘40 dell’800. A Firenze in particolare divenne intimo del principe Napoléon Bonaparte: non il vero Napoleone, ma suo nipote!
Insieme fecero una gita all’isola d’Elba, una specie di pellegrinaggio in cui Napoléon venne accolto con grande entusiasmo dagli isolani (in effetti era parecchio somigliante allo zio). Poi decisero di proseguire la gita per fare una battuta di caccia in qualche altra isola dell’arcipelago. Su consiglio di un uomo del posto, si diressero verso l’isola di Montecristo, dove abbondavano capre selvagge.
Man mano che avanzavamo Montecristo sembrava uscire dal seno del mare e crescere come il gigante Adamastore3. Non ho mai visto un manto d’azzurro più bello di quello che il sole le gettava sulle spalle. Alle undici della mattina, non ci rimanevano che tre o quattro colpi di remo per sbarcare al centro di un piccolo porto. Tenevamo già i fucili in mano, pronti a saltare a terra, quando uno dei due rematori ci disse:
-Le Loro Eccellenze sanno che l’isola di Montecristo è in contumacia.
-In contumacia! domandai; che cosa vuol dire?
-Vuol dire che, siccome l’isola è deserta e che tutte le imbarcazioni vi abbordano senza licenza, in qualunque porto rientriamo dopo essere sbarcati a Montecristo, saremo costretti a fare cinque o sei giorni di quarantena.
-Eh! Mio signore, che ne dite?
-Dico che questo ragazzo ha fatto bene ad avvertirci prima del nostro sbarco, ma che avrebbe fatto ancora meglio ad avvisarci prima che partissimo.
-Il mio signore non penserà che cinque o sei capre, che forse riusciremmo ad ammazzare, valgano cinque o sei giorni di quarantena che invece faremo di sicuro.
-E voi?
-Io non ho una passione per le capre e ho in orrore la quarantena; per cui se il Mio signore è d’accordo…
-Cosa?
-Faremo semplicemente il giro dell’isola.
-A quale scopo?
-Per rilevare la sua posizione geografica; dopodiché torneremo a Pianosa.
-Rilevare la posizione geografica dell’isola di Montecristo, va bene; ma a che cosa ci servirà?
-Per dare, in memoria di questo viaggio che ho l’onore di compiere con voi, il titolo de l’isola di Montecristo a un qualche romanzo che scriverò più avanti.
Sarà proprio vero quello che racconta Dumas? La sua tendenza a riportare i discorsi diretti mi fa pensare che ci sia parecchio di romanzato, ma gli va dato atto che aveva già raccontato questa gita all’isola d’Elba con Napoléon in uno dei volumi della serie Impressions de voyage (1833-1848), intitolato La Villa Palmieri e scritto nel 1843.
Ma chi se ne importa, Alexandre Dumas è un personaggio tremendamente affascinante. Guardate qui sotto: è la prima volta che venne fotografato, nel 1852.
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La nonna di Dumas era una donna africana (non si sa di dove esattamente) che noi conosciamo col nome di Marie-Cessette Dumas. È difficile sapere qualcosa di certo su di lei, comunque pare che fosse stata acquistata come schiava dal marchese Alexandre Antoine Davy de La Pailleterie, nonno di Dumas, e condotta a Santo Domingo (un’altra isola!). Qui il marchese la affrancò, la sposò ed ebbe con lei quattro figli, tra cui Thomas Alexandre Davy de La Pailleterie, che fu un generale di Napoleone durante la Campagna d’Italia e la spedizione in Egitto e padre dello scrittore. Alexandre Dumas, secondo il lessico coloniale dell’epoca, era dunque un quarteron, e il suo quarto di sangue africano deve avergli attirato sarcasmi e razzismi vari4 (esistono delle caricature di Dumas davvero feroci in questo senso): cominciamo a capire perché alcuni pensavano che non fosse lui il vero autore delle sue opere!
Ma ai fini di questa newsletter, quello che ci interessa sono i legami con l’Italia, e nel caso di Dumas sono così numerosi che potrei dedicargli puntate e puntate. Oltre ai libri di viaggio e a Il conte di Montecristo, molte altre sue opere riguardano l’Italia: citiamo solo La Sanfelice (1865) e tutto un ciclo sui Savoia, per non parlare di vari saggi sugli artisti italiani e moltissimi titoli su Napoli, i Borbone e Garibaldi. Dumas, addirittura, raggiunse il generale durante la spedizione dei Mille ed entrò con lui a Napoli: qui fu nominato Direttore degli scavi e dei musei e fondò anche il giornale L’indipendente (va bene, su questa parte napoletana della vita di Dumas tornerò, per forza).
Come da titolo, però, torniamo alle isole, perché Dumas nel 1835 fu uno dei rarissimi visitatori stranieri delle isole Eolie. Il viaggio è raccontato in Le Capitaine Aréna (1842), uno dei volumi di Impressions de voyage. Curiosamente il libro inizia con la visita di Dumas alla Real Casa dei Matti di Palermo, che era allora famosa in tutto il mondo per essere la prima struttura a sperimentare un nuovo approccio con i malati psichiatrici. Il barone Pietro Pisani, che l’aveva fondata nel 1824, aveva abolito l’uso di catene e bastonate e aveva basato tutto su un trattamento “morale” e psicologico: “I matti non sono colpevoli da punire, ma poveri malati ai quali bisogna portare soccorso”, diceva il regolamento della Casa5 di cui Dumas riporta qualche estratto.
Molti diranno che il barone Pisani era folle quanto gli altri, ma la sua era almeno una follia sublime.
Tra i vari metodi usati da Pisani con i suoi pazienti c’era anche l’uso dell’arte. Una sala della Casa aveva le pareti piene di affreschi.
È qui soprattutto che il buon dottore, che conosceva a fondo il genere di follia di ciascuno dei suoi pensionanti, faceva gli studi più curiosi; li prendeva sottobraccio, li conduceva a volte davanti a un affresco, talvolta davanti a un altro, e li spiegava ai suoi malati o se li faceva spiegare da loro: uno di questi affreschi rappresenta il gentile paladino Astolfo che va a cercare sulla luna la fiala che contiene il senno di Orlando6. Chiesi allora al barone come aveva osato mettere in una casa di matti un dipinto che faceva allusione alla follia. - Non dite troppo male di questo affresco, mi rispose il barone; ne ha guariti diciassette.
Nel suo viaggio alle Eolie Dumas è accompagnato dal pittore Louis Godefroy Jadin7 e dal cane Milord. L’itinerario, curiosamente, ricalca quello compiuto da Nanni Moretti nel capitolo Isole di Caro diario (1993), ma le Eolie visitate da Dumas sono molto molto diverse. Innanzitutto sono molto più “isolate”.
Il nostro arrivo aveva fatto rumore: a parte i marinai inglesi e francesi che venivano a caricare la pietra pomice, era molto raro che uno straniero sbarcasse a Lipari. Eravamo dunque l’oggetto di una curiosità generale; uomini, donne e bambini si affacciavano sugli usci delle loro case per vederci passare, e non rientravano finché non eravamo lontani. Attraversammo così la città.
In generale le Eolie appaiono a Dumas come luoghi di una miseria estrema. Ecco come descrive Alicudi:
È difficile vedere qualcosa di più triste, di più cupo e desolato di questa sfortunata isola, che forma l’angolo occidentale dell’arcipelago delle Eolie. È un angolo di terra dimenticato al momento della creazione, e rimasto uguale a com’era ai tempi del caos. Nessun sentiero conduce alla sua sommità né si distende sulla sua costa; qualche sinuosità creata dall’acqua piovana è il solo passaggio che si offre ai piedi martoriati dagli angoli delle pietre e dalle asperità della lava. Su tutta l’isola, né un albero né un pezzo di verde per riposare gli occhi; solamente, sul fondo di qualche crepaccio di rocce, negli interstizi delle scorie, qualche raro stelo di queste piante che fecero sì che Strabone chiamasse a volte l’isola Ericusa. […] E tuttavia, su questo angolo di lava arrossata, vivono in miserabili cabine centocinquanta o duecento pescatori, che hanno cercato di utilizzare i rari frammenti di terra sfuggiti alla distruzione generale. Uno di questi sfortunati rientrava con la sua barca; gli comprammo per 5 carlini (più o meno 28 soldi) tutto il pesce che aveva preso.
Vulcano invece è popolata esclusivamente da detenuti, costretti ai lavori forzati per l’estrazione dello zolfo.
Sarebbe difficile vedere qualcosa di più strano dell’aspetto di questi infelici forzati: a seconda delle diverse vene di terreno in cui lavorano, hanno finito per prendere il colore di quella terra; alcuni sono gialli come dei canarini; altri, rossi come degli Uroni [gruppo di nativi americani]; certi sono infarinati come delle forme di pane, certi altri sono bruni come dei mulatti. È difficile da credere, vedendo tutta questa grottesca mascherata, che ognuno degli uomini che la compongono sia qui per qualche furto o qualche omicidio.
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Anche nell’isola più “civilizzata” di tutte, Lipari, Dumas e Jadin si trovano di fronte a scene che non si aspettano.
Vedemmo un capannello di persone molto nutrito davanti a una porta; ci avvicinammo, fendemmo la folla, e vedemmo un bambino di sei o otto anni, morto, su una specie di brandina. Tuttavia la sua famiglia non sembrava essere particolarmente addolorata; la nonna faceva i lavori di casa, un altro bambino di cinque o sei anni giocava rotolandosi per terra con due o tre piccoli maialini da latte. Solo la madre era seduta ai piedi del letto, e, invece di piangere, parlava con il cadavere con una rapidità che faceva sì che non capissimo neanche una parola. Interrogai un vicino sul significato di quel discorso, e mi rispose che la madre stava incaricando il bambino con delle commissioni per il padre e il nonno, che erano morti uno da un anno e l’atro da tre: queste commissioni erano molto singolari; il bambino veniva incaricato di riferire al genitore che sua madre era sul punto di risposarsi, e che la scrofa aveva fatto sei maialini belli come degli angeli.
L’isola di Basiluzzo, invece, pullula di conigli e gli abitanti non possono farci niente perché sprovvisti di fucili: ecco che allora a Dumas si presenta l’occasione per un’altra battuta di caccia. E questo ci porta a un’altra caratteristica nei viaggi dello scrittore francese: Dumas è un buongustaio, a differenza di molti altri viaggiatori che abbiamo incontrato, insomma ci dà delle soddisfazioni!
A Vulcano, la prima cosa che gli si presenta davanti, nella casa di uno dei due ufficiali che sorvegliano i detenuti, è una tavola imbandita.
Stava finendo di mangiare, e ci invitò a metterci a tavola con lui. Sfortunatamente, per precauzione avevamo fatto lo stesso un’ora prima. Dico sfortunatamente, visto che la tavola era ornata da una magnifica aragosta, che faceva voglia a vedersi, soprattutto per gente che non ne aveva più mangiata da quando aveva lasciato Parigi. Così non potei trattenermi dal chiedergli in quale parte dell’arcipelago si trovava quell’egregio crostaceo. Ci rispose che ce n’erano intorno a Panarea, e che se avevamo il desiderio di assaggiarle, non avevamo che da avvertire il nostro capitano di fare provvista passando davanti a quell’isola.
Scrissi questa importante informazione sul mio quaderno.
Dumas non manca di avvertire il suo capitano, che esegue.
Il capitano aveva seguito il mio ordine alla lettera: aveva fatto una tale raccolta di astici e aragoste che non si sapeva dove mettere i piedi, tanto il ponte ne era pieno; ordinai di riunirle e di fare l’appello: ce n’erano quaranta.
Anche nel convento di francescani in cui viene ospitato a Lipari (non c’erano alberghi sull’isola), Dumas si mette a tavola.
Anche se era martedì, la comunità mangiava di magro, non mangiavano che dei legumi e del pesce; ci servirono a parte un pezzo di manzo bollito e delle specie di colombe arrostite che avevo visto in un certo numero sull’isola.
Al dessert, mentre i monaci, dopo aver reso grazie, si alzavano per ritirarsi, il frate superiore fece loro segno di rimettersi a sedere, e portò una bottiglia di malvasia di Lipari; era davvero il più buon vino che avessi mai bevuto in vita mia; si raccoglieva e si fabbricava nel convento stesso.
Ovviamente Dumas non lascerà l’isola senza aver prima imbarcato una botte di malvasia di Lipari.
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Il viaggio alle Eolie è naturalmente costellato di escursioni in cima ai vari vulcani dell’arcipelago. La più notevole è quella per raggiungere il cratere del vulcano di Stromboli. Mentre Dumas e compagni contemplano il panorama, il vento cambia di colpo e una colonna di fumo e una pioggia di lapilli minaccia di abbattersi su di loro, provocando un fuggi fuggi generale. Il più malridotto è proprio il cane Milord.
L’infelice animale era in uno stato deplorevole: aveva gli occhi arrossati, la bocca aperta, la lingua pendente; tutto il suo corpo, abbrustolito, era diventato marrone chiaro; ansimava così tanto che c’era da credere che stesse per diventare rabbioso.
Ho spesso avuto voglia di mettermi al posto di Milord e di scrivere le sue memorie come Hoffmann ha scritto quelle del gatto Murr8; sono convinto che offrirebbero, viste dal punto di vista canino (chiedo perdono all’Accademia della parola), degli scorci davvero nuovi sui popoli che ha visitato e i paesi che ha percorso.
Un quarto d’ora dopo questa sosta eravamo al villaggio, e consegnavamo ai nostri quaderni questa saggia osservazione, che i vulcani si susseguono e non si assomigliano: avevamo rischiato di congelare salendo sull’Etna, avevamo pensato di arrostire scendendo da Stromboli.
Così stendemmo, Jadin e io, la mano verso la montagna, e giurammo, malgrado il Vesuvio, che Stromboli sarebbe stato l’ultimo vulcano con cui avremmo fatto conoscenza.
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Parliamo di Alexandre Dumas padre, da non confondere con Alexandre Dumas figlio, anche lui scrittore e autore de La signora delle camelie (1848).
Pier Angelo Fiorentino era uno scrittore e drammaturgo italiano ma naturalizzato francese. Collaborò spesso con Dumas e per questo all’epoca si diffuse la diceria che fosse lui il vero autore de Il conte di Montecristo.
Adamastore è il gigante che, nella fantasia del poeta portoghese Luís de Camões, apparve a Vasco de Gama mentre si apprestava a doppiare il Capo di Buona Speranza.
Episodi che continuano anche ai giorni nostri: vedi le polemiche sulla scelta di un attore tout blanc come Gérard Depardieu per interpretare lo scrittore nel film L’autre Dumas (2010).
Molti dei metodi innovativi inaugurati da Pisani vennero aboliti con la legge Giolitti del 1904, che vedeva i pazienti come un pericolo per la società, coniò il termine “manicomio” e diede il via libera a pratiche come l’elettroshock. Di conseguenza anche la Casa dei matti divenne un manicomio: oggi l’edificio ospita un museo, per approfondire si può andare ad esempio qui. Il “metodo della dolcezza” di Pisani ispirò indirettamente il racconto di Edgar Allan Poe Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma (1845).
È una celebre scena del poema di Ludovico Ariosto L’Orlando furioso (1516).
Jadin è conosciuto soprattutto per aver ritratto tutti i cani posseduti dall’alta società francese ai tempi del Secondo Impero. Purtroppo non sono riuscito a trovare da nessuna parte i disegni che deve aver fatto durante il viaggio alle Eolie e che ogni tanto Dumas cita.
Il riferimento è a Le sagge riflessioni del gatto Murr (due volumi pubblicati nel 1819 e 1821), in cui lo scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann immagina il suo gatto (che si chiamava realmente Murr) che scrive un’autobiografia.