Mille anni fa in Sicilia
Nel 1184 il poeta arabo Ibn Jubayr, di ritorno da un pellegrinaggio a La Mecca, visitò l'isola da poco tornata sotto il controllo dei cristiani. Un viaggio sorprendente, all'incrocio tra due religioni
Stavolta parliamo di un viaggio molto lontano nel tempo, ma legato in qualche modo al presente. Il protagonista è il geografo e poeta arabo Ibn Jubayr, che nel 1184/1185, di ritorno da un pellegrinaggio a La Mecca, si fermò in Sicilia per circa tre mesi. Dopo un dominio islamico di due secoli, dal 1091 l’isola era sotto il controllo dei Normanni, e sul trono sedeva Guglielmo II di Altavilla, detto anche Guglielmo il Buono. Dopo tanti viaggiatori che arrivavano dal nord, vedremo quindi l’Italia da un altro punto di vista, capovolta, come dire.
Proprio quest’estate Adelphi ha pubblicato una nuova edizione del diario di viaggio di Ibn Jubayr (solo la parte relativa alla Sicilia) intitolato Viaggio in Sicilia e curato da Giovanna Calasso. In realtà Ibn Jubayr tenne un diario di tutto il suo viaggio, dalla partenza da Granada (allora sotto controllo musulmano) nel febbraio 1183 al ritorno nell’aprile del 1185. Io qui faccio riferimento alla traduzione del 1906 intitolata Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto e curata da Celestino Schiaparelli (arabista e fratello di Giovanni, l’astronomo che scoprì i canali di Marte!). Sarà magari un italiano un po’ artificioso, ma è anche molto affascinante.
È uno strano viaggio quello che ci racconta Ibn Jubayr. Il 6 ottobre 1184 si era imbarcato ad Acri, nell’attuale Israele…
…sopra una grossa nave provvista d’acqua e di viveri, dove i musulmani presero posti separati dai Franchi. Vi salirono dei cristiani detti biligryyin (pellegrini), i quali andavano a Gerusalemme, ed erano tanti che non si contavano, da oltrepassare le duemila persone - Dio per grazie e bontà sua ci scampi e liberi al più presto della loro compagnia.
Tutto il diario di Ibn Jubayr è pieno di queste tensioni tra le due religioni. Da quel poco che so, per i letterati arabi era normale accompagnare sempre qualsiasi riferimento agli infedeli con invocazioni a Dio di questo genere, e viceversa ringraziarlo e lodarlo se ci si riferiva a qualcosa di positivo. È rischioso proiettare su un viaggiatore di quasi un millennio fa le nostre idee contemporanee, ma mi sembra abbastanza evidente che Ibn Jubayr sia costantemente preso tra il disprezzo per i cristiani e la curiosità per i loro costumi. Un esempio: il 1 novembre, festa di Ognissanti, cadeva durante la navigazione e i cristiani a bordo lo festeggiarono con una “festa solenne”.
Tutti vi presero parte con candele accese e non v’era quasi nessuno, grande o piccolo, maschio o femmina, che non tenesse in mano una candela. I preti loro si fecero innanzi sul bastimento a recitare la preghiera, poi uno alla volta si alzarono a far sermoni e a ricordare loro i precetti di religione. Tutta la nave era illuminata dall’alto al basso con lampade accese.
Il viaggio si rivelò molto più lungo di quanto previsto: per colpa dei venti sfavorevoli servirono due mesi “per coprire una distanza per la quale si credeva che bastassero dieci o quindici giorni al massimo”. A bordo morirono alcune persone - due musulmani e due cristiani - e il capitano, per una legge non scritta, ereditò tutto quello che era loro. Altre difficoltà: il pennone dell’albero maestro si spezzò e una burrasca ricacciò indietro la nave fino all’isola di Creta. Finalmente, il primo dicembre, “come biancheggiò l’aurora ed aggiornò scorgemmo davanti a noi la costa di Sicilia che spuntava. Oh la buona novella! Oh gioia!”.
La mattina del dì primo di questo mese vedemmo di faccia a noi il Monte del Fuoco ossia il celebre Vulcano di Sicilia, del che provammo grande consolazione.
C’era però ancora lo stretto di Messina da attraversare, che oggi come allora divide la Sicilia dalla “Terra grande”. Qui il vento forte spinse la nave verso la costa, i marinai provarono ad ammainare le vele ma era troppo tardi: la nave finì per arenarsi sugli scogli. “I cristiani si abbandonavano alla disperazione e i musulmani si rassegnavano calmi al decreto del loro Signore”, scrive Ibn Gubayr. Eppure la terra era così vicina. Si pensò di provare a raggiungerla a nuoto, poi venne calata una scialuppa che riuscì a fare un solo viaggio prima di andare anch’essa a infrangersi tra gli scogli. Alla fine si decise di aspettare il nuovo giorno. Con grande frustrazione del nostro viaggiatore: “Ecco davanti a noi Messina a meno di mezzo miglio, eppure non potevamo raggiungerla”.
La notizia della nave arenata si sparse rapidamente sulla terraferma. Il re Guglielmo II si trovava allora a Messina per assistere ai lavori della sua flotta in costruzione. Decise di recarsi di persona a osservare le barche che provano a soccorrere i viaggiatori.
Restammo meravigliati quando sentimmo che questo re rūmi1 era rimasto ad osservare i musulmani poveri che stavano a guardare dalla nave, e non avevano di che pagare lo sbarco, perché i padroni delle barche alzavano le pretese per metterli in salvo. Egli dunque, informato del caso loro che gli fu esposto per filo e per segno, fece dare a quei poveretti cento rubā‛ī2 di sua moneta affinché potessero scendere a terra.
Guglielmo II, detto anche Guglielmo il Buono, era diventato re di Sicilia appena dodicenne, nel 1166, e fu l’ultimo re normanno della dinastia degli Altavilla. All’epoca del viaggio di Ibn Jubayr, i Normanni avevano sottratto la Sicilia agli arabi da circa un secolo (in un periodo che va dal 1061 al 1091), per cui il nostro viaggiatore non era molto bendisposto nei loro confronti.
Tuttavia il re Gugliemo II non è certo quello che Ibn Jubayr poteva immaginarsi. Il sovrano aveva all’epoca circa trent’anni, sapeva leggere e scrivere l’arabo, e secondo Ibn Jubayr era “ammirabile per la sua buona condotta e per il suo valersi dell’opera dei musulmani”. Al suo servizio ce n’erano molti: giovani eunuchi, vari funzionari tra cui il soprintendente della cucina, un corpo di schiavi neri… anche le sue ancelle e concubine erano tutte musulmane. Ibn ci racconta anche un aneddoto:
Avvennero nell’isola dei terremoti potentissimi e questo re politeista, preso da paura, andava qua e là guardando per il palazzo e non sentiva se non le voci delle donne e dei paggi che invocavano Dio e il suo Profeta. Al vedere il re restavano spesso confusi, ond’egli per calmarli diceva loro: ognuno di voi invochi l’Essere che egli adora e in cui crede.
In Sicilia, insomma, Ibn Jubayr non trova quello che si aspettava. Il suo diario quindi si riempie di note contraddittorie, come si capisce bene da questa descrizione di Messina (“Dio altissimo la restituisca ai musulmani”).
Questa città è l’emporio dei mercanti infedeli, la meta a cui drizzano il corso le navi di ogni regione: è frequentata da comitive di viaggiatori, perché ha mercanzie a buon mercato. Paese avvolto dalle tenebre dell’incredulità, il musulmano non vi fissa dimora. Zeppa di adoratori della croce, i suoi abitanti vi stanno soffocati, e quasi è troppo angusta per contenerli. Piena di lezzo e di sudiciume, rozza, non fa trovare cortesia al forestiero. I suoi mercati sono attivi e frequentati, abbondanti di ogni genere confacente al vivere agiato. Notte e giorno tu vi stai sicuro, benché tu sia forestiero di viso, di mano e di linguaggio.
Ibn Jubayr descrive poi la Sicilia, a partire dall’Etna, il “Monte del Vulcano”, come lo chiama lui, che “per la sua altezza straordinaria è ammantato di nubi e porta un turbante di neve, inverno ed estate continuamente”. Il viaggiatore si trova davanti una terra fertile, ricca di frutti di ogni specie e qualità. “Senonché essa è popolata da adoratori della croce che passeggiano per i suoi poggi e se la godono nelle sue pianure”, chiaramente sfruttando il lavoro dei musulmani e tassandoli.
Ibn Jubayr tornò a imbarcarsi in direzione di Palermo: “Sede del Reame di Sicilia è la città più bella dell’isola; i musulmani la chiamano al-Madinah ed i cristiani Palermo”. Dopo essere sbarcato a Cefalù, proseguì per Tarmah (Termini) e poi via terra.
Camminavamo per una strada che pareva un mercato, tanto era frequentata da moltitudine di gente che andava e veniva. Le comitive di cristiani che ci incontravano, ci salutavano per primi e ci trattavano amichevolmente. Notammo tal garbo e tali modi cortesi da parte loro verso i musulmani che potrebbero sedurre gli animi degli ignoranti.
Infine ecco l’ingresso a Palermo, “antica e bella, splendida e graziosa”, dove aveva sede il re. Ibn Jubayr, nonostante la diffidenza, non riesce a trattenere l’ammirazione:
Quante sale ha egli in essa e quanti edifici! - Possano questi non essere più abitati da lui! - Quante logge e quanti belvederi! Quanti conventi possiede egli ne’ dintorni, conventi di ricca architettura, i cui monaci egli dotò largamente di fondi estesi! Quante chiese dalle croci gettate in oro ed argento!
A Palermo le moschee erano tante da non contarsi, ma, il giorno di Natale, Ibn Jubayr visitò anche la Chiesa dell’Antiocheno, cioè la Chiesa della Martorana, “costruzione a cui ogni descrizione vien meno”. E comunque opera di un musulmano, il “visir del nonno dell’attuale re politeista”.
Il 28 dicembre Ibn Jubayr ripartì per Trapani, dove si trovava la nave con cui poi lasciò la Sicilia. La città era allora un importante porto, con navi che continuamente andavano e venivano da Tunisi (che era solo “a un giorno e una notte di navigazione”).
[Trapani] però si addentra nelle fauci del mare che la circonda da tre lati, e non è congiunta alla terraferma che da un lato solo, ristretto. Il mare spalanca la bocca verso la città dalle altre parti, e la popolazione prevede che senza dubbio la inghiottirà, per quanto possa ancora prolungarsi la durata dei suoi giorni.
Dopo aver visto il Natale a Palermo, a Trapani Ibn Jubayr fece in tempo anche a vedere la fine del Ramadan, il 5 gennaio 1185. Anche in quest’occasione rimase meravigliato della tolleranza dei Cristiani.
Quando la nave per la Spagna, condotta da rūm genovesi, era quasi pronta per partire arrivò un ordine del re: nessuna imbarcazione poteva uscire in mare, le acque dovevano essere lasciate libere perché la flotta del regno doveva salpare. Così Ibn Jubayr passò quasi due mesi a Trapani. Un periodo in cui devono avergli raccontato cose terribili sulla condizione dei musulmani nell’isola, perché il re Guglielmo viene chiamato da qui in poi “re tiranno”. Tuttavia nel suo diario Ibn Jubayr si limita a citare casi di conversioni forzate, come questo.
Tra le prove più dure a cui è messa la popolazione [musulmana] di Sicilia è che ogni volta che l’uomo si adira col figliolo o colla moglie, o la donna colla figliola, e la persona contro cui sono sdegnati va per dispetto a rifugiarsi in una chiesa, questa persona è fatta cristiana e battezzata, e il padre non ha più modo di riavere il figliuolo, né la madre la figliuola.
Ecco questo mi fa pensare che la presenza di due religioni, di due civiltà se vogliamo, potesse rappresentare per le persone dell’epoca anche un’alternativa: se le cose si mettevano molto male, c’era sempre la possibilità di passare “dall’altra parte”, e magari anche migliorare le proprie condizioni di vita.
Finalmente, il 25 marzo 1185, la nave genovese riuscì a salpare e un mese dopo Ibn Jubayr rientrò nella sua Granada. Negli anni seguenti compì altri due viaggi: nel 1189 per visitare Gerusalemme, che il Saladino aveva appena riportato sotto il controllo arabo; e nel 1204, dopo la morte della moglie di cui era “perdutamente innamorato”. Da questo terzo viaggio Ibn Jubayr non tornò mai: si fermò a lungo a La Mecca e di nuovo a Gerusalemme, per poi finire i suoi giorni ad Alessandria, nel 1217.
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Rūm era il termine con cui i musulmani indicavano i Romani, cioè i Romani dell’Impero d’Oriente (che noi chiamiamo Bizantini). I cristiani d’occidente venivano chiamati Franchi. Ibn Jubayr sembra usare i due termini indifferentemente.
Rubā‛ī era allora la moneta d’oro araba. I Normanni la imitarono e ne coniarono una simile chiamata tarì.