Nel ventre di Napoli
Nel 1884 una grave epidemia di colera colpì la città. Il medico/scrittore Axel Munthe accorse a dare una mano e nelle sue "Lettere da una città dolente" raccontò la povertà dei bassi e dei fondaci
Ho scoperto la storia di Axel Munthe per un caso fortuito. Qualche giorno fa mi trovavo in libreria da Modo Infoshop, in via Mascarella a Bologna, per la presentazione di un bellissimo fumetto (Mia sorella è pazza di Iris Biasio). La sala incontri di Modo è tutta tappezzata da scaffali stracolmi di libri usati, e guarda caso il mio sgabello era posizionato propio di fianco alla sezione dedicata ai viaggi in Italia. C’era il volumone del Viaggio in Italia che Guido Piovene scrisse nel dopoguerra - fingo sempre di ignorarlo con la scusa che Piovene non era un artista straniero, ma la realtà è che ho paura: se lo leggessi probabilmente allungherei di altre 100 tavole il mio fumetto. E poi c’era un volumetto intitolato semplicemente Vagabondaggio e firmato Axel Munthe. La presentazione era in ritardo, così ho iniziato a sfogliarlo. Dopo poco ero trasportato a Napoli, sul finire dell’800.
L’epidemia di colera che colpì Napoli nel 1884 fu un grave colpo per l’immagine dell’ancora giovane Regno d’Italia. Il morbo provocò circa 8 mila morti, soprattutto fra gli strati più poveri della popolazione, e attirò l’attenzione di tutta Europa sulle disastrose condizioni di vita nei bassi e nei fondaci della città. Ne scrisse ad esempio Matilde Serao ne Il ventre di Napoli, una dura risposta alla frase pronunciata dal primo ministro di allora, Agostino Depretis, secondo cui bisognava “sventrare Napoli”, e cioè risanare i quartieri popolari del Mercato, Porto, Pendino e Vicaria, dove l’epidemia aveva fatto strage. “Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli - aveva scritto la Serao -. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto”.
Ma Matilde Serao scrisse queste righe mentre viveva a Roma. Lo svedese Axel Munthe invece, che prima di essere scrittore era medico, fu uno dei tanti volontari che accorsero a Napoli da tutta Europa per dare una mano a contrastare l’epidemia. Molti di questi erano per la verità mossi da interesse scientifico più che da solidarietà - Robert Koch aveva identificato l’agente patogeno del colera solo l’anno prima, in Egitto - almeno così sostiene Munthe. Lo scrittore svedese invece era animato da un profondo amore per la città e per i suoi abitanti, soprattutto i più poveri, nutrito fin dalla sua prima visita, avvenuta quando aveva solo 19 anni. Venne a sapere dell’epidemia mentre era in vacanza in Lapponia e subito fece i bagagli per precipitarsi a Napoli. Da lì scrisse una serie di corrispondenze per il quotidiano svedese Dagblad, poi raccolte nel volume Lettere da una città dolente (1887)1.
Il suo racconto comincia con un insolito viaggio in Italia, sul treno che da Roma è diretto a Napoli, nell’ottobre del 1884.
Mi affrettai per assicurarmi un buon posto; una precauzione non necessaria, perché quando il treno partì ero da solo nel coupé, a Marino scoprii che ero da solo nella carrozza, e ad Albano divenne piuttosto evidente che ero il solo passeggero sul treno. Un terribile tanfo di fenolo riempiva le carrozze.
Il fenolo (o acido carbolico, come lo chiama Munthe) era usato come disinfettante contro i bacilli del colera, e l’epidemia era il motivo per cui il treno era deserto, e per cui viaggiava rapido - “Mai prima di allora avevo viaggiato con tanta velocità in Italia”.
Napoli giace dolente ora, non dovremmo tutti accorrere lì, come verso una compagna in difficoltà, noi che abbiamo passato giorni così felici nel suo mezzo, noi che abbiamo imparato ad amare i suoi bambini semplici, affettuosi, poverissimi, noi che abbiamo sentito il mandolino suonare sulla baia ai canti di O dolce Napoli! […] E ora è il tempo di restituire all’Italia un decimo di tutto quello che ci ha dato!
Munthe descrive la situazione a Napoli in un momento in cui l’epidemia sembra dare un po’ di tregua (ma è solo apparente). Lo scrittore dedica ampio spazio alle diseguaglianze sociali che attraversano la città. Da un lato ci sono le autorità, la borghesia, i benestanti: ogni loro donazione, ogni iniziativa di solidarietà è pubblicamente lodata. Dall’altra ci sono gli abitanti dei quartieri più poveri, i cosiddetti lazzaroni, i miserabili che vivono nei bassi e nei fondaci o anche per strada: gente che fino allo scoppio dell’epidemia non aveva mai visto né pubblici ufficiali né medici. Eppure sono proprio i più poveri, secondo Munthe, a essersi sacrificati di più: “Chi ha dato di più, il banchiere benestante che viene pubblicamente ringraziato perché ha donato alla città mille franchi, […] o il pescatore di Mergellina, che, dopo un’intera notte in mare, svuota silenziosamente il contenuto della sua rete sulla soglia del vicino malato”.
I medici sono in prima linea non solo nel contrastare l’epidemia, ma anche la diffidenza della popolazione, che, da sempre abbandonata da tutti, è ostile nei loro confronti.
I lazzaroni sono scettici nei confronti delle medicine tanto quanto lo è il dottore stesso nel profondo del suo cuore. Ma i lazzaroni vanno un passo oltre, e sono dell’opinione che ogni sorta di orrore giaccia sul fondo delle misture del medico - vari veleni, il malocchio, lingue di serpente, un po’ di capelli strappati dalla testa del diavolo, eccetera eccetera […]
Il paziente in sé è di regola troppo malato per offrire resistenza, ma quelli che stanno attorno seguono i movimenti del dottore con la più profonda diffidenza. Conoscevo un dottore che, ogni volta che provava a dare un medicinale a un paziente, era accolto con queste parole, “Bevete voi per primo”.
L’incontro con dottori e pubblici ufficiali è, dopotutto, un’esperienza così nuova per gli abitanti dei quartieri poveri, che si può capire la loro sfiducia. In tempi normali nessun poliziotto si avvicina a questi posti […] e gli abitanti dei fondaci, dei bassi e dei sotterranei vengono e se ne vanno dal mondo senza l’assistenza di un dottore, né in un caso né nell’altro.
Tra il popolo si è diffusa anche quella che oggi chiameremmo teoria del complotto: l’idea secondo cui siano state le autorità a diffondere il colera, desiderose di smaltire la popolazione in eccesso e fare spazio in città. I medici sarebbero dunque pagati dal governo per diffondere la malattia e riceverebbero un premio per ogni malato che riescono a segnalare. Munthe però se la prende con chi ride di queste cose e si fa beffe dell’ignoranza e della superstizione della povera gente. La loro situazione è talmente tragica che per loro è impossibile rispettare anche le più elementari norme di igiene.
Come dovrebbe riuscire ad “arieggiare la stanza”, lui che vive con dieci o dodici altri in uno di quei fondaci, in cui la luce del giorno non è mai penetrata.
La povera gente ignorante qui sa almeno a chi portare i propri problemi e le proprie ansie; hanno fin da subito confidato tutte le loro pene alla Madre di Dio. Mentre tutti gli altri li avevano abbandonati, le sue braccia sono state sempre aperte per loro; non importa quanto miserabili potessero essere, lei sapeva come aiutarli tutti.
Munthe è sicuro che molte delle morti per colera avvenute nei quartieri poveri non compaiano nelle statistiche ufficiali. E sa anche che molti cadaveri vengono buttati nelle fosse comuni senza che nessuno si preoccupi di dargli un nome. Lo scrittore non ha paura di andare a visitare anche i posti più terribili, come il bagno penale di Granatello, a Portici: ne ritorna indignatissimo, perché nulla è stato fatto per impedire il contagio tra i detenuti - i malati non sono stati isolati ed è impossibile disinfettare il posto, che già normalmente è invivibile. Oltre a essere sovrappopolato, il carcere dà sul mare, e quando il mare è mosso l’acqua scorre lungo le pareti delle celle.
Poi ci sono i bassi, i fondaci, e le innumerevoli persone che dormono per strada. Nella parte secondo me più avvincente delle sue Lettere, Munthe ci porta in vicolo della Duchesca, al fondaco del Mercato.
Confesso che ho un po’ di difficoltà a immaginare come fossero fatti questi fondaci - continua a venirmi in mente il Fondaco dei Tedeschi a Venezia con gli affreschi di Giorgione e Tiziano. Il termine viene dall’arabo funduq e nel Medioevo il fondaco era una sorta di deposito merci ed era diffuso soprattutto nelle città marinare. A Napoli, nel periodo di cui parliamo, le nicchie dei fondaci erano diventati il rifugio dei più poveri. Munthe all’epoca ne contò 86, oggi molti non esistono più oppure non sono più abitati, ma sono ancora distinguibili dall’arco che ne segnava l’ingresso. Non ho ben capito come fossero fatte queste abitazioni, ma ieri sera ero a cena da Cristina Portolano, bravissima fumettista nata a Napoli, che ha provato a spiegarmelo con questo disegno. Insomma è come se oggi andassimo a vivere nei garage o nelle cantine del cortile di un palazzo.
Torniamo al racconto di Munthe, che in queste pagine diventa un viaggio nel viaggio: lo scrittore ci dà del tu ed è proprio come se fossimo lì con lui. A fare da guida è un ragazzino, unico sopravvissuto della sua famiglia. Si chiama Peppino e Munthe lo mantiene: “Il ragazzo mi costa quattro soldi al giorno, l’asino due, sei soldi in totale; il sigaro che abbiamo appena acceso costa otto soldi al pezzo”. Faccio notare che, da buon viaggiatore straniero, anche Munthe è intriso di cultura classica, e ai suoi occhi Peppino assomiglia ad Antinoo, il giovane protetto/amante dell’imperatore Adriano.
Il ragazzo conosce il quartiere del Mercato a memoria, e mi ha procurato diversi pazienti. Non saresti in grado di comprendere neanche una parola di quello che dice, e dubito che lui riuscirebbe a capire il tuo raffinato italiano; “Iamo ncopp al maruzzaro?”2, chiede Peppino. Sì, amico mio, stiamo andando al capezzale di quel poveretto - eravamo lì ieri e stava abbastanza male, ma non ho avuto un momento per lui fino ad ora.
In groppa a un’asinella e guidato da Peppino, Munthe prosegue il suo viaggio nei vicoli.
Tieni gli occhi aperti e guardati intorno, per quanto l’oscurità te lo permette, e ti accorgerai presto di quale potente alleato abbiamo dalla nostra parte. La vecchia signora seduta lì all’angolo […]; guarda come annuisce verso di noi; è una dei miei cari amici, anche se non sono mai riuscito a convincermi a diventare suo cliente; è una venditrice di castagne e “chioccioli” [lumache] e i suoi prodotti, ahimè, sono turt’altro che appetitosi - ero solito darle un soldo a volte quando gli affari andavano male e il colera le aveva appena portato via sua figlia. Dai un’occhiata per un attimo all’altro angolo - vedi quella figura là, mezza nascosta da uno di quei portoni? Sembra piuttosto misterioso, mentre sta lì ad aspettarci, vero? Ma non hai nulla da temere da lui, al contrario è lui che ci farà da guardia. Senti come ci saluta - “Buonanotte, Eccellenza!”? […] Come vedi, non è proprio il tipo che di solito si incontra nei quartieri poveri; un lungo mantello gettato sulle spalle, il cappello indossato di lato, ha un bastone in mano e i suoi vestiti sono perfetti - un tipo distinto, in effetti, ma con una brutta faccia. Chiedi a Peppino, ti dirà subito di chi si tratta. Il ragazzo si guarda attorno per essere sicuro di non essere ascoltato, e poi sussurra: “Signorì, è a Camorra”. Hai letto che la Camorra è una cosa del passato - ma sei stato informato male, mio caro, la Camorra è ancora viva! E forse si deve alla Camorra il fatto che anche noi siamo ancora vivi al momento!
È un semplice picciotto, con il compito di badare che al dottor Munthe non accada nulla, ma è buffa questa osservazione dello scrittore svedese, che prima di arrivare a Napoli era anche lui convinto che la camorra fosse morta… probabilmente era un’idea che il governo italiano voleva far passare. E invece scopre che è viva e vegeta, e che è conviene mantenersi in buoni rapporti. In ogni caso Munthe prosegue il suo viaggio tra vicoli sempre più stretti.
L’intero vicinato ha un aspetto deserto. Ti chiedi cosa ne sia stato di tutti quanti. Be’, vedi, qui il colera si è dato molto da fare, e ha derubato le strade da cui stiamo passando ora da quasi tutti i suoi abitanti. Le uniche creature viventi qui sono alcuni solitari pipistrelli che svolazzano in cerchio nell’aria spessa e repellente, e innumerevoli ratti, grandi la metà di un gatto, che saltano da una pozzanghera fangosa all’altra lungo tutta la strada sudicia - confesso candidamente che all’inizio ne avevo paura.
Arriviamo finalmente all’arco che segna l’ingresso del fondaco. Nel cortile il comune tiene accesso un fuoco che dovrebbe purificare l’aria.
Uno potrebbe immaginarsi di essere in una caverna o comunque sul fondo di un pozzo asciutto - questo è il cortile del fondaco; è circondato da abitazioni, topaia su topaia, un buco dopo l’altro, tutte provviste da piccole aperture che servono allo stesso tempo da porta e da finestra. Spesso diverse famiglie vivono insieme in uno di questi buchi, e trovarne uno in cui vi siano raccolte insieme meno di sei o otto persone è un’eccezione.
I bambini sono dappertutto, ogni donna sembra avere un bimbo al seno, molti corrono per il cortile, ma una nutrita fila di ragazzini è accovacciata apatica davanti al fuoco: “Metà di loro sono probabilmente orfani di padre o di madre, ma tutti hanno la febbre” (cioè il tifo). Infine Munthe intravede la moglie del maruzzaro: lui è morto, e nella notte si è ammalata anche la figlia Teresa, che fino a quel momento aveva accudito il padre. La famiglia è così povera che ha una sola coperta: prima copriva il morto ma ora serve a riscaldare la figlia. Il medico/scrittore ci descrive il suo intervento:
E ora al lavoro! L’unica cosa da fare è ridare un po’ di calore alla povera bambina malata; se non trovi nient’altro, via il cappotto e usalo per strofinare gli arti congelati. E tu, dottore, ora è il momento di usare tutto quello che hai portato con te. […] Con che gioia accogli il primo ritorno alla vita, mentre penetra infine attraverso gli occhi freddi come acciaio, che stanchi, solo mezzi aperti, sfigurati da profondi cerchi neri, lentamente si posano su di te nel tentativo di seguire ogni movimento! Ecco, ora sono più luminosi - è il ritorno della coscienza, è l’anima che si è svegliata! Ti chini su di lei, capisci che ti ha riconosciuto e le dici che tutto andrà bene; vedi che ti ha capito e che vuole parlare, anche se non è in grado di farlo. Poi le sue labbra cominciano a muoversi, e le sue prime parole dicono che non può, non vuole morire! Asciughi il sudore freddo dalla sua fronte, dicendole che vivrà! “Sì, tu guarirai, sì sì”.
Poi comincia ad agitarsi sempre di più, dimenandosi nel letto squallido, mentre il sorgere della coscienza soccombe all’opprimente paura della morte e del dolore, e lei urla ad alta voce “Salvatemi! Salvatemi! Ma mi salverete! Non è vero che sarebbe un peccato se morissi?” E poi, stramata dal calore, chiede senza sosta qualcosa da bere. “Ho sete! Brucio! Neve, neve! Io ardo!”.
Eri pronto per tutto questo e hai portato del ghiaccio nella tua cesta, e siedi lì, chiedendoti da dove ti venga la pazienza che ti permette, stanco come sei, di stare lì, ora dopo ora, a far scivolare di tanto in tanto pezzetti di ghiaccio nella sua bocca. I suoi occhi grandi incontrano i tuoi, così fiduciosi e tuttavia interrogativi, si sforzano di percepire in ogni sguardo, in ogni cambio di espressione, se sei ansioso, se ancora pensi che tutto stia andando bene.
E se dovesse guarire! Nessuno chiederà a chi debba la vita. Non devi aspettarti nessuna parte di merito per il tuo piccolo, minuscolo ruolo nella faccenda - e nessuno te la darà in ogni caso. La madre crede che sia stata la Santa Vergine, non tu, a salvare la bambina, e più hai a che fare con gente malata più è probabile che anche tu ti converta al modo di pensare della madre. Non sei neanche dell’umore di prendere appunti medici; non hai nessuna voglia di annunciare al mondo che hai “salvato” un paziente coleroso, o di pubblicare il “caso” insieme a una serie di riflessioni teoriche […] Qui sei un essere umano e niente di più.
Nel gennaio del 1885 il governo varò la Legge per il Risanamento di Napoli, sui cui ora non mi addentro3 ma che cambiò il volto dei quartieri descritti da Munthe. Lo scrittore svedese invece continuò a visitare l’Italia e nel 1895 cominciò a costruire, ad Anacapri, Villa San Michele, un piccolo capolavoro di architettura che tra le altre cose conserva anche i resti di una villa romana. Vi soggiornarono negli anni molti artisti e personaggi illustri - Rainer Maria Rilke, Henry James, la contessa Luisa Casati - Munthe invece vi abitò poco e a un certo punto dovette abbandonarla per una malattia agli occhi, che lo costrinse a tornare in Svezia. Nel 1929 però raccontò la nascita della villa nel libro La storia di San Michele, una sorta di autobiografia romanzata che ebbe parecchio successo4. Alla sua morte lasciò la villa allo stato svedese, oggi è un museo.
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L’ultima edizione italiana è recente, del 2022, con il titolo La città dolente. Lettere da Napoli, per la casa editrice Colonnese.
Il maruzzaro era il venditore di lumache.
Rimando alla pagina Wikipedia dedicata alla legge.
Nel 1962 in Germania dal libro fu tratto anche il film Der Arzt von San Michele. Qui c’è una specie di trailer.