Lettera dal carcere
Qualche mese fa ho tenuto un laboratorio di fumetti in tre giornate nella casa circondariale di Bologna. Questa è la cronaca di quell'esperienza
È un’aula piccola, con una decina di banchi e sedie di legno dall’intelaiatura rossa, proprio come in una scuola normale. Su una delle pareti più strette c’è la lavagna di ardesia, in quella di fronte la lavagna elettronica. Sopra, appeso al soffitto, un proiettore. “L’anno scorso ci aveva fatto il nido un merlo”, è una delle prime cose che mi raccontano gli studenti, “abbiamo dovuto insistere perché non venisse tolto. Poi d’estate l'hanno tolto comunque”. Questa immagine del merlo, che può volare liberamente dappertutto, e che invece sceglie di fare il nido proprio qui, mi pare molto significativa. Perché “qui” è un’aula della casa circondariale di Bologna, una stanzetta dove si fa scuola in carcere, e dove gli studenti sono i detenuti.
Non è la prima volta che entro in carcere, ma nella mia visita precedente ero arrivato solo fino al cortile esterno, per visitare e scrivere del laboratorio in cui si riciclano i rifiuti RAEE (principalmente piccoli elettrodomestici). Così avevo già sperimentato le procedure per i visitatori alla portineria d’ingresso: identificarsi, depositare tutti gli oggetti in un armadietto, ricevere un tesserino, passare dal metal detector. Quella volta ero in veste di giornalista, stavolta sono qui come autore di fumetti: devo tenere tre incontri per il progetto del Salone del libro di Torino Adotta uno scrittore. Normalmente sono le classi delle scuole “normali” a partecipare, ma anche in carcere si fa scuola e io sono stato “adottato” qui. Ad accompagnarmi c’è G., che insegna in carcere da anni e ha organizzato tutto. Si vede che qui dentro è un’autorità: ha un suo tesserino speciale, tutti la conoscono, la salutano e la rispettano.
Sono perfettamente consapevole che non vedrò il carcere vero. Infatti entro in una sorta di pre-carcere, un’ala dell’edificio dove si trovano le aule, la biblioteca, il teatro, e dove anche i detenuti si muovono piuttosto liberamente. Pare ci siano mille attività in corso, e anche se pensavo di essere preparato sono invece un po’ sorpreso - la prima delle mille volte che proverò questa sensazione qui dentro. Quasi subito mi rendo conto che tenere insieme 800 uomini senza far nulla tutto il giorno non sarebbe una buona idea, anche senza pensare alla “rieducazione del condannato” prevista dalla Costituzione. Infatti anche i miei studenti non sono tutti presenti: alcuni hanno udienza, altri colloqui con la famiglia, altri ancora hanno allenamento (di rugby o calcio, ora non ricordo esattamente). Però anche questa sezione più leggera è già carcere. Soffitti bassi, cancelli dappertutto, porte allarmate che si aprono solo se una guardia nascosta chissà dove schiaccia un bottone - alcune volte, allo stesso portone, aprono subito, altre volte ci fanno aspettare, una delle tante logiche imperscrutabili che vigono qui dentro.
E poi ci sono le guardie, che trovo quasi più interessanti degli stessi detenuti perché non corrispondono per nulla all’immagine che abbiamo di loro dal cinema o dalla tv. Oggi mi sembrano quasi più simili a dei bidelli che a dei poliziotti: sono signori non particolarmente atletici e anche quello che indossano non corrisponde esattamente a una divisa. Poi C., che insegna qui, mi racconterà che questa apparenza anche gentile può mutare molto velocemente. Ad esempio una volta ha chiamato una guardia per nome, quella si è voltata e a muso duro ha detto: “Non farlo mai più”.
Anche il mio primo incontro con gli studenti si svolge all’insegna di una normalità stranamente distorta. Tutti vogliono stringermi la mano e presentarsi. Mi stringeranno la mano anche a fine lezione e anche nei successivi incontri. Non mi pare di stringere mai tutte queste mani, “fuori”. Penso subito che vogliano mettermi alla prova, ma forse mi sbaglio. Quando chiedo a F., altro insegnante qui, il perché di queste ripetute strette di mano mi spiega che è un riconoscersi tra pari. Le guardie, invece, è vietato toccarle.
Gli studenti fanno parte di una classe equivalente a un secondo anno di un istituto tecnico. Sono tutti uomini ovviamente, ma hanno tutte le età, ci sono appena maggiorenni, persone sulla quarantina, sessantenni. In teoria dovrebbero aver letto il mio fumetto su Primo Levi1, ma già far entrare delle copie qui dentro è stato complicato: i libri cartonati sono un problema perché, mi spiegano, nella copertina rigida si potrebbe nascondere qualcosa… o forse perché possono essere usati come arma? In ogni caso non mi interessa molto se hanno letto o no il libro, comunque inizio mostrando un po’ dei miei lavori e soprattutto parlo del mio primo fumetto. Parla di mio padre e dei cinque anni in cui è rimasto in stato vegetativo2. So che è una storia molto potente e la uso con parsimonia. Qui però ne parlo apposta, voglio che capiscano che non sono un fighetto, quindi mi metto a nudo subito. E mi pare che funzioni.
Negli incontri successivi faccio disegnare loro. Lavoriamo su brevissime storie di quattro vignette, quella che considero l’unità minima del fumetto. Suggerisco anche uno spunto di storia ma quasi tutti, appena afferrato il meccanismo, smettono di ascoltarmi e iniziano a disegnare quello che vogliono loro. La richiesta, in teoria, sarebbe di raccontare cose legate alla loro condizione qui dentro, ma non me la sento di insistere troppo. Infatti dopo un po’ uno degli studenti, uno dei più grandi, mi dice chiaramente che non ne può più di pensare, scrivere, parlare di carcere. Non crede che interessi a nessuno di quelli che stanno fuori, anzi pensa proprio che possa essere controproducente. Ha ragione, in un certo senso, anche se io penso che si debba comunque raccontare. Ma ha ragione perché tutte le cose che mi racconta sulla vita in cella sono cose che in realtà avrei potuto immaginare, il fatto è che non ci penso mai.
Non mi ero mai fermato a riflettere, ad esempio, al fatto che qui i telefonini non esistono: niente internet, niente mail, niente chat, o almeno non a disposizione ogni momento come per noi. Lui mi spiega che scrive delle lettere, che tutti sono felicissimi di riceverle ma poi nessuno risponde. Mi spiega anche la lunga trafila che richiede fare una telefonata in carcere, un iter che comincia il giorno prima: io gli dico che può disegnare proprio questo, lui lo fa ma un po’ controvoglia.
I ragazzi più giovani sono quelli con cui faccio più fatica a relazionarmi, anche se alla fine disegneranno un sacco. Per provare a coinvolgerli gli chiedo che musica ascoltano, ma quasi subito tutti cominciano a spiegarmi come si ascolta la musica in carcere, e cioè solo su lettori cd, e si possono avere solo cinque cd alla volta - quale sia il criterio dietro questo numero sfugge a tutti. Alcuni disegnano la loro cella, altri fanno fumetti su orologi e lancette che si muovono lentissimamente, sul tempo che scorre lento ma comunque scorre. Altri ancora immaginano la loro vita una volta fuori. Disegnano famiglie che si tengono per mano davanti a un tramonto, e moltissimi uccelli in volo. Io non ho idea del motivo per cui siano finiti qui dentro, l’unica cosa che so di loro è che sono stati condannati per reati comuni.
Molti disegnano la natura, quasi sempre una natura che rinasce, che si risveglia. Non so cosa pensare di fronte a questi uomini grandi e grossi, a volte pieni di tatuaggi, che disegnano arcobaleni. I loro fumetti mi fanno pensare all’unica altra cosa che so di carcere, cioè alle lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Qualche mese prima di questi incontri mi era capitato di fare dei disegni su quegli scritti e ne avevo lette un bel po’. Anche in quelle lettere c’è molta natura, la natura della Sardegna di quando Gramsci era bambino e ragazzino. Sono state scritte un secolo fa.
Come in tutte le classi, c’è uno studente più espansivo degli altri, parla un sacco e ha sempre il sorriso. Ci accompagna verso l’uscita e mentre mi rendo conto che non saprei mai ritrovarla da solo, lui si ferma, è arrivato al cancello della sua sezione e ci saluta con una battuta: “Che fate stasera? Io mi sa che non esco, non mi sento molto in forma”. La prima volta mi fa sorridere, poi mi rendo conto che ripete la stessa battuta ogni volta. Non c’è una cosa in questo luogo che non sia distorta. F., che viene qui a insegnare ogni giorno, mi racconta una sorta di cortocircuito mentale da cui è stato colto di recente. Tra i detenuti gli era sembrato di scorgere un suo conoscente e questo per un attimo aveva come squarciato un velo: il carcere, le celle, le guardie, per qualche istante gli erano sembrate come un’enorme messa in scena, una recita, una finzione allestita apposta per lui.
Mi porto dietro la stessa sensazione di surrealtà nei giorni successivi e anche adesso mentre scrivo.
Secondo il dossier Morire di carcere realizzato da Ristretti orizzonti, nel 2024 sono stati 90 i suicidi di detenuti in carcere (nel 2025 se ne contano già 7). È il numero più alto almeno dal 1992, da quando si realizza il dossier. A questi si sommano 7 suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria. Nelle carceri italiane si trovano attualmente 62 mila detenuti, a fronte di una capienza di 51 mila posti. Il sovraffollamento, secondo l’associazione Antigone, è tornato ai livelli del 2013, quando la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “le politiche governative, a partire dal ddl sicurezza, non fanno altro che spingere il sovraffollamento carcerario”.
Nel settembre del 2023 avevo fatto dei disegni dal vivo per la serata Una notte per Gramsci, in cui si leggevano appunto le lettere di Antonio Gramsci. Poi ne ho ricavato una brevissima storia a fumetti per la rivista Achab, metto qui sotto alcune tavole.
Una stella tranquilla, edito da Coconino Press.
Ciao Pietro, che fantastica puntata!
Quest'anno insegno in carcere e ogni ingresso (così come ogni fuoriuscita) è per me sempre una scoperta (di cose che non sapevo del mondo e di cose che non sapevo di me). Anche io provo sistematicamente una forte sensazione di star vivendo qualcosa di surreale; altre volte invece mi sembra che solamente lì dentro sia tutto veramente reale (nel senso di schietto, crudo, che ti costringe a guardare le cose come sono).
Grazie per averne scritto: è stato molto bello leggerti.
Toccante... ma come ti rivolgi alle guardie? Non vogliono che le si chiami per nome immagino per non creare confidenzialità... 🤔