Marcel Proust e i segreti di Venezia
Nelle lastre sconnesse del battistero di San Marco si nasconde la chiave per ritrovare il Tempo perduto
E quasi subito la riconobbi, era Venezia.
Questa è una foto di Marcel Proust, scattata a Venezia nel 1900.
Anche se con la bombetta e i baffi qui può assomigliare a un precoce sosia di Charlie Chaplin, quello è proprio Proust, seduto sulla veranda dell’Hotel Europa, che all’epoca aveva sede a Palazzo Giustiniani, lungo il Canal Grande. Lo scrittore aveva allora 29 anni ed era in vacanza con la madre, Jeanne Weil. In quell’occasione Proust visitò anche Padova, per vedere gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni e in particolare il ciclo dei Vizi e delle Virtù, e molto probabilmente tornò una seconda volta a Venezia nell’ottobre dello stesso anno.
Proust era a Venezia per seguire le tracce di un altro viaggiatore, il critico d’arte e artista a sua volta John Ruskin, autore di tanti volumi sull’Italia e in particolare sulla città lagunare, a partire da Le pietre di Venezia (1851-1853). Ruskin è già comparso alcune volte in questa newsletter, come viaggiatore a Bologna, per esempio, e sopratutto come promotore del lavoro del pittore inglese William Turner. Ruskin morì proprio nel gennaio del 1900, e in quello stesso anno, ad aprile, prima di partire per Venezia, Proust aveva pubblicato un lungo articolo sul soggiorno del critico inglese ad Amiens, in Francia. Proust inoltre tradusse in francese La Bibbia di Amiens, opera di Ruskin del 1885 dedicata alla cattedrale di Amiens.
E questo sarebbe più o meno tutto quello che sappiamo del viaggio di Proust a Venezia. Ma se invece parliamo del viaggio di Marcel, il narratore di Alla ricerca del tempo perduto, allora le cose cambiano. Scritto nell’arco di 16 anni, dal 1906 al 1922, e pubblicato in sette volumi, tre dei quali postumi, Alla ricerca del tempo perduto è il romanzo capolavoro di Proust, oltre che un’opera cardine della letteratura del ‘900. Ora non fingerò di averlo letto tutto, ho letto qualcosa e recentemente ho letto altri pezzetti. Volendo essere spietati, si potrebbero riassumere le tremila pagine di Alla ricerca del tempo perduto in una frase: è la storia di come Marcel diventa uno scrittore.
E come praticamente tutta la vita di Proust, anche il viaggio a Venezia è entrato a far parte del romanzo: Soggiorno a Venezia è infatti il titolo del secondo capitolo del sesto volume, Albertine scomparsa o La fuggitiva. Secondo Alberto Beretta Anguissola, curatore dell’edizione de I Meridiani, si tratta di una delle sezioni più autobiografiche del romanzo.
Come nel viaggio reale, anche nel romanzo Marcel visita Venezia insieme alla madre, e anche qui è sulle tracce di John Ruskin - si citano infatti “certi quaderni in cui prendevo degli appunti per un mio lavoro su Ruskin”. Marcel gira per Venezia, visita la basilica di San Marco insieme alla madre, nota che “parecchi dei palazzi del Canal Grande erano trasformati in alberghi”, e poi ci sono descrizioni splendide come questa (anche se non la metto per intero):
La mia gondola seguiva i piccoli canali; come la mano misteriosa di un genio che mi avrebbe condotto lungo le spire di questa città d’Oriente, essi sembravano, via via che avanzavo, aprirmi un sentiero […]. Avevo l’impressione, che aumentava ancor di più il mio desiderio, di non trovarmi all’esterno, ma di entrare sempre più a fondo in qualcosa di segreto, perché ogni volta trovavo qualcosa di nuovo che prendeva posto di fianco a me, da un lato o dall’altro, un piccolo monumento o un campo imprevisto, assumendo l’aria stupita delle belle cose che vediamo per la prima volta e di cui non comprendiamo ancora bene la destinazione e l’utilità.
Ma soprattutto Venezia è il luogo in cui Marcel scopre, o crede di scoprire, di non amare più Albertine - la sua relazione con questa ragazza attraversa tutto il romanzo -, quindi il capitolo Soggiorno a Venezia è stato letto come quello in cui Marcel dice addio alla giovinezza.
Ma questo è solo l’inizio. Come ho scritto, non ho letto Alla ricerca del tempo perduto per intero e così non sapevo che Venezia avesse un ruolo fondamentale nell’ultimo volume del romanzo, Il tempo ritrovato.
SPOILER ALERT: Non penso di poter davvero rovinare la lettura di Alla ricerca del tempo perduto con questa newsletter, ma chi vuole evitare spoiler di qualsiasi genere farebbe meglio a fermarsi qui!
Per sei volumi Marcel si è dibattuto tra scarsa autostima e poca forza di volontà, e nell’ultimo volume, Il tempo ritrovato, lo incontriamo ormai rassegnato mentre sta tornando in treno a Parigi. Marcel si è convinto di non avere “doni letterari”, anzi pensa che la letteratura stessa sia una menzogna. Di fronte alla luce del sole che illumina per metà una fila di alberi, nella campagna che il treno sta attraversando, il suo sguardo è pieno di noia e di freddezza: “Alberi, pensai, voi non avete più niente da dirmi, il mio cuore gelato non vi sente più. […] Se mai ho potuto credermi poeta, ora so di non esserlo”. Tornato a Parigi in questo stato d’animo, Marcel decide di recarsi alla matinée in casa del principe di Guermantes a cui è stato invitato. Senza troppo entusiasmo, a dire il vero, e sempre con l’animo colmo di rassegnazione.
Ma a volte è nel momento in cui tutto ci sembra perduto che arriva l’avvertimento che può salvarci: abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente, e la sola in cui si può entrare e che avremmo cercato invano per cento anni, la urtiamo per caso e si apre.
Ed è proprio una sensazione legata a Venezia che salva Marcel.
Arrovellandomi sui tristi pensieri che dicevo poco fa, ero entrato nella corte di palazzo Guermantes e, distratto, non avevo visto una vettura che stava arrivando; al grido dell’autista ebbi giusto il tempo per scostarmi bruscamente di lato, e indietreggiai abbastanza per inciampare mio malgrado sul pavé mal squadrato dietro al quale stava una rimessa. Ma nel momento in cui, rimettendomi in equilibrio, posai il piede su una lastra che era un po’ meno alta della precedente, tutto il mio avvilimento svanì di fronte alla stessa felicità che in diverse epoche della mia vita mi avevano donato la vista degli alberi che avevo creduto di riconoscere in una passeggiata in carrozza vicino a Balbec, la vista dei campanili di Mariniville, il sapore di una madeleine intinta in una tisana, e tante altre sensazioni di cui ho parlato e che le ultime opere di Vinteuil mi erano sembrate sintetizzare. Come nel momento in cui gustavo la madeleine, ogni inquietudine per l’avvenire, ogni dubbio intellettuale, venivano dissipati. Quelli che mi assalivano un attimo prima a proposito della realtà dei miei doni letterari, e della realtà stessa della letteratura, venivano sollevati come per incanto.
Questa volta mi ripromettevo di non rassegnarmi a ignorare il motivo per cui, senza che io avessi fatto nessun nuovo ragionamento, né trovato alcun argomento decisivo, le difficoltà, insolubili fino a poco prima, avevano perduto ogni importanza, come invece avevo fatto il giorno in cui avevo assaggiato una madeleine intinta in una tisana. La felicità che avevo appena provato era, in effetti, la stessa che avevo sentito mangiando la madeleine e di cui allora avevo rimandato di cercare le cause profonde. La differenza, puramente materiale, era nelle immagini evocate. Un azzurro profondo riempiva i miei occhi, delle impressioni di freschezza, di luce abbagliante, roteavano intorno a me e, nel mio desiderio di afferrarle, senza osare muovermi proprio come quando gustavo il sapore della madeleine tentando di far arrivare fino a me quello che mi ricordava, restavo a vacillare come avevo fatto poco prima, a rischio di far ridere l’innumerevole folla di autisti, un piede sulla lastra più rialzata, l’altro sulla lastra più bassa. Ogni volta che rifacevo, solo materialmente, quello stesso passo, mi risultava inutile; ma se riuscivo, dimenticando la matinée dai Guermantes, a ritrovare ciò che avevo sentito posando così i miei piedi, di nuovo la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava come a dirmi: «Coglimi se ne hai la forza e prova a risolvere l’enigma di felicità che ti propongo.» E, quasi subito, la riconobbi, era Venezia, di cui non mi avevano mai detto niente i miei sforzi per descriverla e le pretese istantanee scattate dalla mia memoria, mentre ora la sensazione che avevo già provato su due lastre ineguali del battistero di San Marco mi veniva restituita insieme a tutte le altre sensazioni collegate a quel determinato giorno, che erano rimaste in attesa, al loro posto, di un brusco caso del destino che le avesse imperiosamente fatte uscire dalla serie dei giorni dimenticati. Allo stesso modo il sapore della piccola madeleine mi aveva ricordato Combray.
La piccola madeleine che apre il romanzo trova quindi un parallelo nelle lastre sconnesse del battistero di San Marco in questo ultimo capitolo. È l’inizio di una risalita che porterà finalmente Marcel a scrivere il suo romanzo.
Questo ruolo risolutivo assegnato alle lastre del battistero di San Marco, Proust doveva averlo già in mente fin dal 1906, quando iniziò a scrivere Alla ricerca del tempo perduto. “Proust ha scritto il primo e l’ultimo volume nello stesso tempo e poi ha operato diversi cambiamenti nella struttura dell’opera”, ha spiegato Nathalie Mauriac, una delle curatrici della mostra Marcel Proust - La fabbrica dell’opera, che ha appena inaugurato a Parigi alla Bilbiothèque nationale de France, in occasione del centenario della morte dello scrittore. In mostra ci sono i manoscritti di Proust e in particolare i suoi paperoles, fogli appiccicati uno sotto l’altro a formare una specie di papiro.
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