Storia di un lago scomparso
Il lago di Fucino, in Abruzzo, era il terzo più grande d'Italia quando l'artista inglese Edward Lear lo visitò, a metà '800. Pochi anni dopo il principe Torlonia iniziò i lavori per prosciugarlo
C’era una volta, nel cuore dell’Abruzzo, il lago di Fucino. Era all’epoca il terzo lago d’Italia per estensione, invece oggi al suo posto c’è un’enorme pianura coltivata, circondata dai monti. Sono zone che conosco poco e non sapevo nulla della storia di questo lago scomparso, finché non ho iniziato a leggere il diario di viaggio dell’artista inglese Edward Lear, che nell’estate del 1843 attraversò l’Abruzzo.
Mi misero in una barca o barchina dal fondo piatto, e presto due uomini mi portarono sul lago calmo, la cui superficie simile a vetro rifletteva ogni nuvola nei colori più belli. L’Alba e il Velino distanti erano ridotti a sfocati oggetti all’orizzonte, ma le montagne sui lati est e sud dell’acqua erano imponenti. Molti cormorani si libravano sul lago, o sedevano assorti sui pali usati per la pesca nelle parti meno profonde del lago.
Il lago, ci fa sapere Lear, aveva una circonferenza di circa 56 chilometri e si trovava poco sotto L’Aquila, tra Avezzano, Celano e Trasacco. Vi si pescavano tinche, persici e barbi. Ma il lago aveva un problema: era un lago “chiuso”, senza un vero emissario, col pericolo di trasformarsi in palude rendendo la zona a rischio malaria. E in più il livello delle sue acque non era stabile: più volte aveva allagato le zone circostanti. Così già dai tempi dei Romani si era tentato di prosciugarlo.
Intorno al 50 d.c. ci aveva provato l’imperatore Claudio, che aveva fatto costruire un emissario, un cunicolo sotterraneo che avrebbe dovuto drenare l’acqua dal lago. La cosa non funzionò del tutto e nei secoli successivi l’emissario si ostruì. Altri imperatori come Traiano e Adriano tentarono di rimetterci mano, ma senza troppa convinzione, e le successive invasioni barbariche segnarono l’abbandono di qualsiasi tentativo di intervento. Secoli dopo ci provò ancora l’imperatore Federico II, di nuovo senza successo. Solo a metà ‘800, una decina d’anni dopo la visita di Lear, cominciarono i lavori che riuscirono effettivamente a prosciugare il lago di Fucino. Non fu un’impresa semplice. Ci vollero più di vent’anni, fino al 1878, e il principe Alessandro Torlonia, il banchiere che finanziava il progetto, rischiò quasi di finire sul lastrico. Gli viene per questo attribuita una celebre frase: “O Torlonia prosciuga il Fucino, o il Fucino prosciuga Torlonia”. Per ricordare l’impresa il principe fece costruire a Villa Torlonia, a Roma, una piscina con la forma del lago ormai scomparso.
La piana creata dal prosciugamento del lago oggi è tappezzata da campi coltivati e ospita anche il Centro Spaziale del Fucino: entrambi si vedono bene in questo video dell’Esa (European Space Center).
Ma questi Torlonia non erano dei benefattori. Le terre strappate alle acque divennero di proprietà del principe, che per delimitare i confini della nuova proprietà fece posizionare alcune statue della Madonna, contando sulla religiosità degli abitanti perché rispettassero i confini. La situazione dei braccianti locali fu raccontata nel 1933 da Ignazio Silone nel romanzo Fontamara1: il titolo prende il nome da una città immaginaria, vicina ad Avezzano, ma invece il principe Giovanni Torlonia2 nominato da Silone fu quantomai reale. Nella prefazione al romanzo è lo stesso Silone a spiegare il “regime coloniale” che vigeva nelle terre del Fucino.
I Fontamaresi assistevano alle trasformazioni della pianura come ad un spettacolo che non li riguardasse. La terra da lavorare in montagna restava poca, arida, sassosa, il clima sfavorevole. Il prosciugamento del lago di Fucino, avvenuto circa ottanta anni fa, ha giovato ai comuni del piano, ma non a quelli della montagna, perché ha prodotto un notevole abbassamento della temperatura in tutta la Marsica, fino a rovinare le antiche colture. […]
Questi danni sarebbero stati largamente compensati dallo sfruttamento delle fertilissime terre emerse dal prosciugamento del lago, se la conca del Fucino non fosse stata sottoposta a un regime coloniale. Le grandi ricchezze che annualmente da essa si ricavano, impinguano un ceto ristretto di indigeni e per il resto emigrano verso la metropoli. Bisogna infatti sapere che, assieme a vaste estensioni di terre dell’Agro Romano e della Maremma, i quattordicimila ettari del Fucino sono proprietà di una famiglia di sedicenti principi Torlonia, calati a Roma ai primi del secolo scorso al seguito di un reggimento francese. […] L’oscura vicenda dei Fontamaresi è una monotona via crucis di cafoni affamati di terra che per generazioni e generazioni sudano sangue dall’alba al tramonto per ingrandire un minuscolo sterile podere, e non ci riescono; ma la sorte dei Torlognes è stata proprio il contrario. Nessuno dei Torlognes ha mai toccato la terra, neppure per svago, e di terra ne possiedono adesso estensioni sterminate, un pingue regno di molte diecine di migliaia di ettari.
Questa storia del lago mi ha preso un po’ la mano, ma in realtà doveva essere una scusa per raccontare del viaggio di Edward Lear in Abruzzo! I “cafoni” descritti da Silone in Fontamara in fondo non sono così diversi da quelli incontrati da Lear quasi un secolo prima. Abbiamo già incontrato questo artista come inventore di limerick, ma Edward Lear fu anche un pittore e uno scrittore. Nelle sue Escursioni illustrate in Italia (1846)3 scelse appositamente di visitare - e disegnare - le regioni italiane meno battute, gli Abruzzi e la Calabria, e lo fece come se fosse davvero il primo a esplorarle. Le Escursioni sono piene di descrizioni minuziose, a partire dalla spiegazione del plurale degli Abruzzi: erano le tre province - Chieti, Teramo e L’Aquila - in cui allora era divisa la regione, che all’epoca della visita di Lear faceva parte del Regno di Napoli.
Mi limito a riportare alcune cose che mi hanno colpito, prima fra tutte il motivo per cui pochi viaggiatori visitavano quelle zone, in particolare la Marsica - tra il Lazio e l’Aquila - che era la provincia preferita di Lear.
Un’indescrivibile pace, un senso di distanza dal mondo indaffarato, pervade questa zona isolata. Nessuna strada collega la Marsica con Roma o Napoli. L’antica via Valeria vi passava attraverso partendo da Roma, e le sue vestigia sono ancora visibili vicino al Castello di Tagliacozzo; ma adesso le uniche strade percorribili dalle carrozze nell’intero territorio vanno da Tagliacozzo ad Avezzano, Celano e Magliano: e una da Capistrello a Sora, non ancora completata. Chiusa nel suo cerchio di alte montagne, la Marsica non ha comunicazioni (oltre a quelle garantite dalle mulattiere) con nessuna grande città; e possiede, oltre al piacere della sua tranquillità poco frequentata, più attrazioni tra i suoi panorami, i suoi abitanti, le sue antichità, di qualunque altro posto io abbia avuto la fortuna di visitare.
Viaggiare in questa zona d’Italia non era semplice. Lear la percorse a cavallo, ma non poteva sottrarsi ai continui controlli della polizia locale: a ogni cambio di provincia era necessaria una Carta di Passo, e chi non l’aveva doveva aspettare anche per giorni un lasciapassare. Alberghi e locande erano rari, ma l’ospitalità e la gentilezza degli abitanti rese più semplice il soggiorno dell’artista inglese.
Notavamo a ogni passo la cortesia e la piacevole cordialità dei contadini, quasi ognuno di loro ci salutava, sia passando attraverso la città, sia dopo dalle vigne ai lati della strada: la maggior parte di loro aggiungeva una benedizione, “V’accompagna Maria” o “Vi benedica Gesù!” o almeno “Faccia felice viaggio!”. Questa buona educazione e senso di ospitalità attraverso tutto il territorio della Marsica sono davvero incantevoli.
A volte però i marsicani erano fin troppo ospitali. A Trasacco, Lear fu ospite a pranzo dalla famiglia più importante del paese, i De Gasperi. Potete immaginare lo svolgimento.
A dire la verità, l’ospitalità di questa lodevole famiglia fu piuttosto opprimente, perché non c’era fine al pranzo, e il modo in cui riempivano continuamente i nostri piatti minacciava seriamente di provocare un colpo apoplettico. I macaroni, parola usata negli Abruzzi per indicare lunghe strisce di pasta (di solito condite in estate con Pomi d’oro), erano la cosa su cui potevamo meno controbattere; e, dai tempi di Benjamin [non so chi sia], non si era visto niente di simile alle porzioni sotto cui cominciammo a cedere. “Bisogna mangiare!” “è un piatto nazionale!” esclamavano i sei fratelli se prendevamo una pausa nel compito assegnatoci. “Non possiamo più”, dicevamo noi. “Mangiate! mangiate! sempre mangiate!” dicevano loro.
La preferenza di Lear per la Marsica e in generale per gli Appennini è evidente. Nel suo viaggio si spinse fino a Pescara giusto per mezza giornata, il tempo di fare un bagno nell’Adriatico. Poi di nuovo sui monti.
Ad Antrodoco, oggi in provincia di Rieti, Lear si adattò alle usanze della pensione in cui alloggiava: oltre a scrittore e pittore, era anche un musicista!
Feci quello che facevano tutti gli altri dopo cena - e cioè cantare canzoni e suonare la chitarra all’infinito, e di conseguenza fui assillato ogni cinque minuti con la richiesta di “un’aria inglese”. Due vedove de L’Aquila erano instancabili nelle loro richieste per “Ye bans and braes”; ma “Alice Gray” ebbe la maggioranza dei voti. Così la serata trascorse in modo piuttosto piacevole; e se questa società non era troppo raffinata, almeno la genuinità e l’allegria non mancarono.
Chissà se Lear imparò proprio in quella serata le musiche tipiche abruzzesi che poi decise di inserire in appendice alle sue Escursioni, con tanto di pentagramma. C’è l’aria “dei Pifferari”, suonata dai pastori con le loro zampogne. Nelle campagne si cantava invece Quanto sei bella Rondinella, anche se non sono riuscito a trovare nessuna registrazione.
A Celano, ancora una volta sui monti intorno al lago di Fucino, Lear visse infine un’esperienza che doveva essere inedita per un inglese, ma purtroppo molto comune per un abruzzese.
Ci eravamo seduti per cenare la prima sera del mio arrivo, quando mi sentii improvvisamente spinto avanti sulla mia sedia, fin quasi a toccare il tavolo con il naso: dev’essere qualche nuova trovata domestica del cameriere alle mie spalle, scuotere tutti i commensali sulle proprie sedie - mi dissi - ma un attimo dopo tutta la famiglia si alzò, e varie persone, gridando “Terramoto!”, accorsero nella stanza. Celani, e in effetti l’intera provincia dell’Abruzzo Ulteriore Secondo [quella de L’Aquila] è spesso soggetta a terremoti, e nel corso del mio soggiorno in quelle zone ci furono quattro scosse, che imparai presto a riconoscere.
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Attualmente edito da Mondadori, il libro uscì nel 1933 in Svizzera, dove lo scrittore si trovava in esilio. Venne pubblicato in Italia solo nel 1945, dopo la caduta del fascismo.
Tra le altre cose il principe Giovanni Torlonia concesse a Benito Mussolini di usare Villa Torlonia come residenza romana durante il fascismo: il dittatore fece costruire nel parco della villa un bunker antiaereo, che si trova proprio di fianco al laghetto del Fucino.
La traduzione in italiano, curata da Chiara Magni, si può leggere qui in versione pdf.
A parte la storia avvincente, c'è un dettaglio in particolare che cattura me: quello che l'Italia attirava visitatori in ogni sua parte, non solo nelle grandi città 😌 Oggi si parla tanto di valorizzare meglio i territori, come se dovessimo pensare sempre a nuove modalità, mentre forse in fondo è solo questione di tornare agli equilibri di una volta 😊 Non so se penso giusto, ma è questa la sensazione