Un americano tra i Macchiaioli
Il pittore Elihu Vedder frequentò il gruppo di artisti a Firenze, poi si stabilì a Roma. Era arrivato in Italia a piedi, da Nizza a Genova, e fece anche un viaggio in bici fino a Venezia
Preparando una delle scorse puntate di questa newsletter, dedicata a Herman Melville, mi ero imbattuto nella storia del pittore americano Elihu Vedder, a cui l’autore di Moby Dick aveva dedicato la sua ultima raccolta di poesie (alcune di queste parlano dell’Italia). Questi incroci capitano spesso nel lavoro di ricerca che sto facendo per il mio fumetto sui viaggi in Italia: una storia ne genera un’altra e un’altra e un’altra ancora. Prima di raccontarvi di Vedder, ecco una sua foto del 1910, scattata o a Capri o a Roma:
Vedder era nato a New York nel 1836. A vent’anni, nel 1856, era partito per Parigi e poi aveva proseguito per l’Italia. Che questo artista americano sia un tipo particolare si capisce già dal modo in cui arrivò in Italia: a piedi da Nizza a Genova! “Ho camminato per oltre cento miglia lungo una delle più belle coste del mondo e quanto mi è piaciuto”, scrisse in una lettera al padre.
Dopo un passaggio a Roma e a Venezia, Vedder si stabilì a Firenze. Forse unico tra i viaggiatori che abbiamo incontrato, riuscì a farsi talmente benvolere dalla famiglia che gli affittava un alloggio in via de’ Maccheroni che questi lo adottarono come uno di casa. Ma Firenze è importante perché qui l’artista conobbe il gruppo dei pittori Macchiaioli, da cui fu molto influenzato. Nelle sue memorie, Le digressioni di V. (1911), Vedder ci dà uno spaccato di come vivevano i Macchiaioli, tra le serate al Caffè Michelangiolo e le camminate per disegnare en plein air.
Le rive del fiume Mugnone, che scorre attorno a una parte di Firenze dopo Porta San Gallo, erano una delle passeggiate preferite per i frequentatori del Caffè Michelangiolo.
Sulle rive alte di questo fiume, guardando la campagna circondata dalle grandi colline spoglie da cui d’inverno arrivavano quelle folate di gelo che ci facevano lacrimare gli occhi (occhi che erano stati precedentemente preparati nell’acre fumo di tabacco del Caffè durante le lunghe sere invernali, o affaticati, dipingendo alla luce fioca delle lampade a olio dell’Accademia Galli) camminavamo e stabilivamo tutte le grandi questioni del giorno.
Seguendo il fiume si arriva infine al luogo in cui questo passa sotto un ponte ai piedi di una lunga salita che porta a Fiesole. È qui che dipinsi due dei miei studi migliori, e un piccolo quadro di cui ho sempre avuto un’alta considerazione.
In particolare Vedder fece amicizia con il pittore italiano Giovanni Costa (che tra le altre cose combatté con Garibaldi). Insieme andavano in giro a dipingere - “io lavoro d’assalto, lui di assedio” - e fu Costa, probabilmente, a far scoprire a Vedder le balze di Volterra.
Vedder ci descrive poi i vari artisti, italiani e stranieri, che frequentava allora. Tra i Macchiaioli è meraviglioso il breve ritratto di Michele Gordigiani:
Come descrivere il mio amico Gordigiani, con la sua inesauribile riserva di storielle e la sua abitudine, ogni volta che dipingeva un ritratto, di accendere il suo Toscano, buttare il fiammifero per terra, tirare una o due boccate, dipingere come un matto, riaccendere il Toscano e ripetere l’azione finché non si trovava con i fiammiferi fino alle ginocchia.
Ma a Firenze c’erano anche diversi Preraffaelliti, come John William Inchbold.
Non sono mai riuscito ad avere da Inchbold una chiara definizione di cosa costituisse il Preraffaellismo. Tornare all’arte prima di Raffaello? Non direi. In effetti detta come va detta c’era sempre qualcosa in cui i Preraffaelliti si distinguevano dagli altri - e ancora non sono stato capace di definire cosa, eccetto che nella loro arte devono essere diversi da tutti gli altri e i loro dipinti devono avere “the look”.
Vedder scrive le sue memorie per gli amici, e per far ridere, quindi spesso esagera, però mi ha colpito questa descrizione del suo stato d’animo da giovane artista a Firenze, in cui cita diverse delle sue opere (per vederle segui i link).
Non mancava quella ricca, romantica tristezza della gioventù. Io la provai in pieno e ne godetti immensamente; altrimenti come spiegare i miei preparativi per morire giovane, preparativi ampiamente documentati negli innumerevoli soggetti che allora concepii, ma, tranne che in rare eccezioni, mai realizzai: l’alchimista che muore subito dopo aver fatto la sua grande scoperta; il giovane eremita che prega per la sua morte; il vecchio alle porte del cimitero; la fine di una vita sprecata; e molte altre cose. Quello che voglio dire è che in molte delle cose che ho fatto da allora prevale quella peculiare tristezza della gioventù, e la sua sopravvivenza prova quanta gioventù conservo ancora. Per quanto riguarda il morire giovane, ho perso la mia opportunità.
Ma le cose in America andavano di male in peggio, e “il futuro appariva scuro”. Così Vedder lasciò “l’Eden” fiorentino e da Livorno si imbarcò per tornare in patria. Già a Cadice cominciò a sentire la nostalgia dell’Italia, e in quello stato d’animo fece in piccolo tutti i disegni per Il mugnaio, suo figlio e l’asino, una sorta di fiaba illustrata in nove quadri che nelle intenzioni di Vedder doveva essere una sorta di testamento del suo periodo fiorentino. Arrivò negli Stati Uniti nel 1861, giusto in tempo per veder scoppiare la Guerra civile.
Negli Usa Vedder cominciò pian piano ad affermarsi, lavorando anche come illustratore per riviste come Vanity Fair, ed è in questo periodo che realizzò l’opera poi lo legherà indirettamente a Herman Melville, Jane Jackson, ex schiava (vedi la puntata su Melville). La produzione di Vedder è molto varia: qui rischia di sembrare soprattutto un paesaggista, perché sto inserendo opere esplicitamente legate all’Italia, ma in realtà questo artista è conosciuto sopratutto come pittore simbolista. I suoi dipinti hanno spesso soggetti allegorici o mitologici, poi Vedder era stato anche in Egitto, quindi rappresentò di frequente sfingi, enormi serpenti o gente sperduta nel deserto.
Alla fine della Guerra civile l’artista decise di tornare in Europa, prima a Parigi e poi di nuovo in Italia. Nel 1867 Vedder si stabilì a Roma, dove visse per il resto della sua vita (morì nel 1923) alternando soggiorni a Capri, dove aveva una villa, e viaggi di lavoro negli Usa.
C’è una domanda a cui trovo in qualche modo difficile rispondere, e cioè come mai ho finito per soggiornare così a lungo in Italia. Si può davvero chiamare soggiornare, perché non ho mai contemplato l’idea di stabilirmi qui. Il soggiorno cominciò in quei giorni in cui la gente viaggiava con le corriere o passava tutto l’inverno qui, e comprava dipinti; ed eravamo tutti giovani, e la vita era bella, e io riuscivo a guadagnare abbastanza per vivere. Poi nacquero i bambini e io non potevo permettermi di lasciar perdere tutto qui e andare a casa e ricominciare tutto da capo.
Vedder passò inizialmente molto tempo al Caffè Greco, ritrovo degli artisti stranieri a Roma. Qui incrociò tra gli altri “il vecchio” Joseph Severn, cioè il pittore amico di John Keats, quello che l’aveva assistito sul suo letto di morte a Roma e che adesso è sepolto accanto al poeta al cimitero acattolico (vedi la puntata Gli ultimi giorni di John Keats).
Ho sempre rimpianto di non aver capito quanto interesse avrei ricavato da lui sui suoi giorni con Shelley, Keats e Byron. A proposito, i miei amici George Simmonds e Charly Coleman si installarono nell’appartamento di Keats, e temo che facessimo baldoria senza riguardo per la memoria del poeta - perché eravamo disperatamente innamorati delle nostre vivaci vite allora.
Sono tante le gite e le escursioni fatte da Vedder nell’Italia centrale, tutte accompagnate da disegni e dipinti, troppe per citarle tutte. Ci sono le città, naturalmente - Perugia, Gubbio, Assisi, Orte - ma Vedder era attirato soprattutto dai villaggi più sperduti. A proposito di Vasanello (provincia di Viterbo), scrisse:
Come amo queste piccole cittadine dimenticate, fuori dalla rotta dei viaggi.
Nel 1884 Vedder ottenne un ottimo successo con le illustrazioni realizzate per l’edizione americana del Rub’ayyat, una raccolta di poesie del poeta persiano dell’XI secolo ‘Umar Khayyám. Una copia deluxe fu acquistata dalla Regina Margherita, e Vedder ebbe con lei anche un colloquio - “Era gentile e graziosa, ma come al solito non riesco mai a trarre vantaggio da queste opportunità. Avrei potuto diventare Cavaliere - immaginate un po’!”.
Torniamo alla foto iniziale, quella con il pittore e la sua bicicletta. A quanto pare era una delle varie passioni che animarono Vedder dopo il suo ritorno a Roma.
Collezionare bric-a-brac in generale - gran divertimento. Poi mi prese molto pesantemente la passione per la canoa; così come quella per la bicicletta, che finì in un bellissimo viaggio a Venezia e ritorno.
Avrei tanto voluto trovare più notizie su questo viaggio in bici - è il primo viaggiatore/ciclista che incontriamo! - ma non è stato possibile. C’è solo un altro passaggio in cui Vedder, raccontando di un viaggio a Deruta (provincia di Perugia) paragona il viaggiare a dorso d’asino a quello in bici.
[L’asino] è il modo migliore di vedere la campagna. Il tuo contadino sta con lui nella stalla per assicurarsi che riceva la ben meritata avena, disinnescando così ogni furbo stalliere, e anche se una bicicletta è una buona cosa, l’asino, non importa quanto sia stanco, non ti lascia bloccato con una ruota a terra, come potrebbe fare una bicicletta.
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