Debussy e l'abominevole villa
Al contrario del suo predecessore Geroges Bizet, Claude Debussy detestò il suo soggiorno romano e la sede dell'Accademia di Francia fu per lui "una terribile caserma"
Diceva Herman Melville: “Un viaggiatore dev’essere giovane, senza preoccupazioni, dotato di cordialità e immaginazione. Perché senza queste ultime tanto vale che stia a casa”1. Quando Claude Debussy partì per Roma, nel 1885, era senza dubbio giovane (aveva 23 anni), ma in quanto alle altre doti citate da Melville era parecchio carente. Come Georges Bizet una ventina d’anni prima di lui2, Debussy aveva vinto il Prix de Rome, la borsa di studio dell’Accademia di Francia che gli dava diritto a una residenza a Villa Medici, a Roma. Ma se per Bizet Villa Medici era stata un paradiso, per Debussy fu “una terribile caserma”. Ecco cosa scrive il compositore nella sua prima lettera da Roma, nel febbraio del 1885:
Eccomi in questa abominevole villa, e vi assicuro che la mia prima impressione non è per niente buona. Fa un tempo spaventoso; piove, c’è vento. Ammetterete che non c’è bisogno di venire a Roma per trovare lo stesso tempo che a Parigi, soprattutto per qualcuno pieno di rancore per tutto ciò che è romano.
Se Bizet aveva pianto “per sei ore senza interruzioni” il giorno in cui disse addio ai suoi compagni e a Villa Medici, Debussy pianse appena messo piede nella sua nuova camera: “È immensa, bisogna percorrere una lega per andare da un mobile all’altro, quanto mi sono sentito solo e quanto ho pianto!”.

Villa Medici, nelle lettere di Bizet, era il tetto sotto cui viveva una comunità di artisti, allegri e solidali tra loro. Agli occhi di Debussy, invece, tra gli allievi dell’Accademia regnano la spocchia e la competizione.
Il milieu artistico di cui parlano i vecchi, quel buon cameratismo, mi sembrano molto sopravvalutati.
[I compagni] sono rigidi, hanno un’aria convinta della propria importanza, - troppi prix de Rome per questa gente.
La sera del mio arrivo alla villa, ho suonato la mia cantata3 che ha avuto successo con alcuni, ma non tra i musicisti, per esempio.
Di certo lo spirito con cui il giovane compositore partì per questa esperienza non era dei migliori. A Parigi Debussy aveva lasciato la sua musa, Marie-Blanche Vasnier, una donna di 32 anni, sposata e con figli, a cui aveva già dedicato diverse melodie, che lei cantava con voce da soprano (ad esempio Rondel chinois, 1881). Non ho ben capito se i due abbiano avuto una vera relazione: Debussy era amico di tutta la famiglia Vasnier, dava lezioni di musica alla piccola Marguerite e il marito (rivale?) Eugène Vasnier è il destinatario delle lettere di Debussy da Roma. Fu proprio il signor Vasnier a spingere il compositore a partire per l’Italia e poi a spronarlo perché rimanesse all’Accademia: chissà, forse voleva in questo modo tenere Debussy lontano da Parigi e da sua moglie?
In ogni caso l’altro motivo che spinse Debussy a partire per l’Italia era di natura economica: la borsa di studio del Prix de Rome faceva comodo al giovane compositore. Ma nello stato d’animo in cui si trovava anche fare musica diventava difficile. Debussy la prese così male da ammalarsi.
Sono un po’ malato, sempre per lo stesso motivo, il mio diavolo di cuore si ribella all’aria di Roma. Vorrei così tanto lavorare che mi rompo il cervello senza trovare altro che della febbre che mi abbatte stupidamente, lasciandomi senza forze.
Non ho ben chiaro cosa si intenda con questa febbre, che torna spesso nelle lettere di Debussy e di Bizet prima di lui: potrebbe essere anche la malaria, che in quel tempo era diffusa a Roma. Sta di fatto che il compositore era spesso malato, e nel giugno del 1885 scrisse così al signor Vasnier:
Vi assicuro che mi è venuta spesso l’idea di andarmene da questa terribile caserma dove la vita è così triste e la febbre troppo facile da prendere. Ci sono tuttavia delle persone che hanno cantato e glorificato il clima dell’Italia! Trovo questa affermazione un po’ sinistra, soprattutto ora. Sfortunatamente la vostra lettera, dove tutte le argomentazioni più giuste sono condensate, ha combattuto i miei tentativi di fuga e pare che abbia avuto ragione, poiché sono ancora qui e sto per mettermi al lavoro. Siete contento?

Non avevo idea che Debussy fosse stato anche uno scrittore. Direi che merita questa definizione, perché quando nel 1901 i redattori de La revue blanche4 gli chiesero di scrivere delle critiche musicali, il compositore si inventò un personaggio fittizio: un tipo piuttosto sgradevole nell’aspetto, ma un vero appassionato di musica, un melomane, chiamato monsieur Croche, che il narratore (Debussy stesso?) incontra una sera in un salotto parigino e con cui comincia a discutere di musica5. In una delle sue prime apparizioni monsieur Croche si prende gioco del Prix de Rome e in generale di tutte le istituzioni che pretendono di incanalare, di imbrigliare l’arte. Ma il vero talento non nasce perché una qualche commissione l’ha deciso. Il narratore che dialoga con monsieur Croche però ha partecipato al Prix. Ecco come descrive la sua reazione quando scopre di aver vinto.
Fu sul ponte des Arts, dove attendevo il risultato del concorso contemplando l’incantevole evoluzione dei bateaux-mouches sulla Senna. […] Di colpo qualcuno mi diede un colpetto sulla spalla e disse con voce ansimante: “Avete vinto il prix!…” Che tu mi creda o no, posso nientemeno affermare che tutta la mia gioia crollò! Vidi chiaramente i guai, i fastidi che fatalmente porta con sé il minimo titolo ufficiale. Soprattutto, sentivo che non ero più libero.
Quelle impressioni in seguito scomparvero; non si resiste all’inizio a quel piccolo fumo di gloria che è, almeno provvisoriamente, il prix de Rome; quando arrivai a Villa Medici, nel 1885, non ero lontano dal credermi il prediletto degli dei di cui parlano le antiche leggende.
Nel descrivere l’arrivo a Roma, sempre in Monsieur Croche, Debussy sa essere veramente perfido:
Cominciò quella vita da “pensionante” che assomiglia allo stesso tempo a quella dell’hotel cosmopolita, del libero collegio, della caserma laica e obbligatoria… - Rivedo la sala mensa della Villa dove sono allineati i ritratti dei prix de Rome di una volta e di ieri. Ce ne sono fino in fondo [alla sala]; non si riesce più a distinguerli bene; è vero che non se ne parla nemmeno più. In tutte queste figure, si ritrova la stessa espressione un po’ triste; hanno un’aria “sradicata”… Dopo qualche mese, il moltiplicarsi di quei quadri dalle dimensioni immutabili dà a chi li contempla l’impressione che si tratti dello stesso prix de Rome ripetuto all’infinito!
Le conversazioni che si tengono attorno a quel tavolo assomigliano molto alle proposte di un menu fisso, e sarebbe vano credere che si commentino le estetiche recenti e nemmeno le ardenti fantasticherie degli antichi maestri. Se da questo punto di vista Villa Medici è un luogo di arte mediocre, dall’altro vi si apprende molto velocemente il lato pratico della vita, tanto ci si preoccupa della figura che si farà di ritorno a Parigi…
Sono gli stessi toni che Debussy aveva usato nelle sue lettere da Roma. Qui ad esempio parla del rapporto con gli altri allievi, che col passare dei mesi si fece più difficile:
Questa vita da sotto-ufficiale a stipendio pieno (a questo assomiglia per molti aspetti) non mi dirà mai nulla […]. Per questo è nata una certa animosità tra me e i miei compagni, che mi accusano, ingiustamente, di volermi isolare e che vogliono sopraffarmi con una filosofia concepita probabilmente nelle brasseries del boulevard Saint-Michel, alla quale del resto mi oppongo nel modo più ostinato possibile.
Anche artisticamente Debussy non si sentiva libero. Le sue composizioni, gli “invii” che tutti gli allievi dovevano produrre durante la loro residenza, non corrispondono a quello che l’Accademia si aspetta da lui.
La sola cosa che la villa ha di buono, cioè la totale libertà di lavorare per fare una cosa originale e non ricascare sempre nelle strade già percorse. È certo che l’Istituto non sarà del mio stesso avviso, trovando evidentemente che la sua strada sia l’unica buona. Tanto peggio! Amo troppo la mia libertà e ciò che è mio. Ma questa è solo una boutade, la sola cosa vera è che non posso fare che questa musica.
A Roma Debussy compose l’ode sinfonica Zuleima, di cui non sappiamo nulla, la commedia lirica Diane au bois (qui la prima parte, Mais la nuit vient) e la suite sinfonica Printemps: quest’ultima in particolare non piacque all’Accademia, che la ritenne colma di un “vago impressionismo che è uno dei più pericolosi nemici della verità nell’opera d’arte”. A Villa Medici Debussy lavorò anche alle Ariettes oubliées, una serie di melodie per voce e pianoforte basate su poesie di Paul Verlaine.
Proprio alla musica si deve l’unica nota positiva di tutto il soggiorno romano di Debussy.
Bisogna che vi racconti la mia sola uscita in questi mesi. Sono andato a sentire due messe, una di Palestrina, l’altra di Orlando de Lassus, in una chiesa chiamata l’Anima. Non so se la conoscete (è nascosta in un dedalo di vicoli ignobili)6. Mi è piaciuta molto, essendo di uno stile molto semplice e puro, cosa che la distingue da un mucchio di altre, dove regna un’orgia di sculture, pitture, mosaici, che trovo di aspetto un po’ troppo teatrale. In questa chiesa il Cristo ha l’aria di uno scheletrino smarrito che si domanda melanconicamente perché l’abbiano messo lì. È proprio in questa cornice che bisogna ascoltare questa musica, che è la sola musica di chiesa che io ammetto.
I due suddetti gentiluomini sono dei maestri, soprattutto Orlando che è più decorativo, più umano di Palestrina. […] Ecco le sole ore in cui le sensazioni musicali si sono risvegliate in me.

Nel 1886 ci fu un passaggio di consegne alla direzione di Villa Medici, con l’arrivo del pittore Ernest Hébert, che tra l’altro era cugino di Stendhal! Con lui la vita dell’Accademia si fece molto più mondana, e Debussy trovò lo stratagemma perfetto per evitare di parteciparvi.
Ho dichiarato a Hébert di aver venduto il mio abito, e che le mie risorse finanziarie non mi permettono di farmene fare un altro. Mi ha trattato da folle, ma non me ne importa assolutamente nulla, ho raggiunto il mio scopo, perché c’è troppa religione del decoro per introdurre una miserabile giacca nello splendore dei vestiti scollati e degli abiti neri.
Anni dopo, rievocando la figura del direttore in Monsieur Croche, Debussy aggiunge qualche dettaglio su Hébert, con la consueta perfidia.
Questo eminente pittore è rimasto “romano” fino alla punta delle unghie. La sua intransigenza per tutto quello che riguardava Roma e la Villa Medici è del resto rimasta proverbiale… non ammetteva alcuna critica che toccasse queste due cose; mi ricordo ancora che essendomi lamentato di vivere in una camera i cui muri dipinti di verde sembravano retrocedere man mano che uno avanzava - era conosciuta dai residenti con il nome di “Tomba etrusca” - monsieur Hébert mi disse che non aveva nessuna importanza. Aggiunse anche che si poteva al bisogno dormire tra le rovine del Colosseo… il beneficio di provare il “brivido della storia” compensava il rischio di prendersi la febbre.
A proposito di rovine, nel febbraio 1887, Debussy ebbe la fortuna di vederle ricoperte di neve.
In questo momento questa città, famosa per il suo sole, assomiglia a Mosca: tutta coperta di neve, un freddo da gelare. […] [La neve] dà alle rovine un colore molto bello, le rende pulite e conferisce originalità alle loro linee corrette e fredde. È mille volte meglio che con il cielo di un blu irritante e il color argilla abituale.
Nonostante la sua insofferenza, Debussy resistette a Villa Medici per i due anni che erano richiesti ai vincitori della borsa di studio. Nel marzo del 1887 però non ce la faceva proprio più e scrisse così al signor Vasnier:
Non posso restare qui, ho provato di tutto; i vostri consigli li ho seguiti. Vi giuro che vi ho messo tutta la buona volontà possibile. Ma tutto questo non è servito ad altro che a farmi capire che non potrei mai vivere e lavorare qui.
Ecco quello che mi succederà se resto, mi annienterò del tutto. Lo sento, da quando sono qui il mio spirito è morto e io voglio tanto lavorare, arrivare a produrre qualcosa di valido e di mio. Altra cosa: voi sapete, quando lavoro, quanto dubito di me stesso; ho bisogno di qualcuno di fidato, che mi rafforzi […]. Qui non l’avrò mai. I miei compagni si prendono gioco della mia tristezza, e mai riceverò un incoraggiamento da parte loro.
Parto sabato e arriverò a Parigi lunedì mattina.
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Vedi la puntata I consigli di Herman Melville per i viaggiatori.
Vedi la puntata Georges Bizet a Villa Medici.
Dovrebbe trattarsi della cantata L'Enfant prodigue, con cui Debussy aveva vinto il Prix de Rome.
La revue blanche era una rivista letteraria di avanguardia attiva dal 1889 al 1903, prima a Liegi e poi a Parigi. Vi scrissero praticamente tutti i più importanti scrittori francesi dell’epoca. Artisti come Henri de Toulous-Lautrec e Pierre Bonnard realizzarono delle affiches, mentre Félix Vallotton, Paul Signac e molti altri realizzarono illustrazioni per le pagine interne. Date un’occhiata alla serie di bellissime stampe de L’album de la revue blanche, pubblicato nel 1895.
Questi scritti di Debussy furono poi raccolti nel 1921 nel volume Il signor Croche antidilettante, pubblicato qualche anno fa da Adelphi. Il termine “antidilettante”, che Debussy utilizza in italiano, si riferisce alla serietà con cui il signor Croche prende la musica. Ecco come viene descritto questo personaggio nella sua prima apparizione: “Parlava con un tono di voce molto basso, non rideva mai, a volte sottolineava la conversazione con un sorriso muto che gli cominciava dal naso e gli increspava tutto il viso come acqua calma in cui si getta un sasso. Era un sorriso lungo e insopportabile”.
È la Chiesa di Santa Maria dell’Anima, vicino a piazza Navona.