Georges Bizet a Villa Medici
La sede dell'Accademia di Francia a Roma ospitava pittori, scultori, musicisti. Ci passò anche l'autore della "Carmen", che nelle sue lettere descrive la vita di questa particolare comunità di artisti
Vorrei poterti mostrare, per un istante, la vista splendida che ho dalla mia camera. Vorrei anche farti visitare il paradiso in cui abitiamo e che chiamano Villa Medici.
Villa Medici, sulla collina del Pincio, poco sopra la scalinata di piazza di Spagna, è uno dei luoghi che più abbiamo frequentato in questa newsletter: è infatti la sede dell’Accademia di Francia, e dal 1666 al 1968 vi soggiornarono i vincitori del Prix de Rome, una specie di borsa di studio che permetteva ai giovani artisti francesi di passare un periodo a Roma. Tra questi abbiamo già incontrato i pittori Jacques-Louis David e Dominique Ingres, ma Villa Medici accoglieva anche scultori, architetti e musicisti.
E tra i musicisti l’Accademia ospitò quello che sarebbe diventato uno dei più importanti compositori francesi: Georges Bizet, che arrivò a Roma nel 1858, quando aveva solo 20 anni. Credo che a tutti sia capitato di ascoltare almeno la sua Habanera (qui nell’interpretazione di Maria Callas), tratta dall’opera Carmen, tuttavia il suo successo fu postumo: la Carmen venne rappresentata sei mesi dopo la sua morte, avvenuta prematuramente nel 1875, quando aveva solo 36 anni. Già da giovanissimo Bizet soffriva di una grave forma di angina pectoris, e anche durante il soggiorno a Roma la sua salute fu malferma. Tuttavia i tre anni passati in Italia, dal 1858 al 1860, furono tra i più felici della sua vita.
Come si viveva a metà ‘800 a Villa Medici? Nelle lettere che indirizza ogni 15 giorni ai genitori, Bizet ci offre uno spaccato della vita dei borsisti, a partire dal suo arrivo, alla fine di gennaio del 1858.
E ora parliamo un po’ dell’arrivo all’Accademia. Siamo stati accolti meravigliosamente dai nostri compagni, che hanno ritenuto di doverci fare degli incantevoli scherzi: letti sistemati a portafoglio, comodini rotti e appoggiati a un pezzo di legno, in modo da generare un frastuono spaventoso ogni volta che li si toccava, eccetera… È questa una vecchia abitudine, anche se è lungi dall’essere formalizzata.
In Accademia insomma c’è un po’ di nonnismo, che si esprime soprattutto ai danni degli allievi più permalosi. Ad esempio i nuovi arrivati sono costretti a offrire caffè come penitenza, e chi la prende male, come il compositore Charles Colin, compagno di Bizet nel viaggio verso Roma, viene preso ancora più in giro. Bizet invece ostenta indifferenza, in modo da non dare soddisfazione e togliere ogni gusto agli scherzi.
Bizet è il “cocco” del direttore dell’Accademia, il pittore Jean-Victor Schnetz, e in generale è benvoluto da tutti. Quando nel marzo del 1858 un brutto mal di gola lo costringe a letto per un paio di settimane, tutti i suoi compagni vanno a fargli visita, tutti i giorni, più volte al giorno. La salute di Bizet, come accennavo all’inizio, non è ottima. Per fortuna ai borsisti malati viene assegnata un’infermiera e le cure e i farmaci sono a carico del governo francese. Anche se sono cure che oggi ci fanno rabbrividire: “Monsieur Venti, un medico italiano, mi ha dissanguato e mi ha messo sulla gola dodici sanguisughe”, scrive il compositore.
L’angina che ho avuto a Parigi non era che una vacanza1 rispetto a questa. Tutti mi consigliano di farmi togliere le tonsille: cosa che richiede una riflessione.
Bizet comunque non si deprime e prende la malattia come “un tributo da pagare al clima”. Quando si ristabilisce, scrive:
Sono dimagrito in modo spaventoso. I pantaloni mi stanno millecinquecento volte troppo larghi. Sono ancora paffuto, ma del genere Fournel [dovrebbe trattarsi dello scrittore Victor Fournel, amico di Bizet]. Questa piccola malattia mi ha fatto un gran bene: mi sento più robusto, più forte, e nello spirito più fresco e più libero. Questa monotonia di felicità e salute era diventata fastidiosa, e quindici giorni a letto mi hanno fatto un gran bene.
In generale i ritmi di vita dell’Accademia sono piuttosto regolari: ci si dedica allo studio e all’arte, anche se a volte può capitare che qualche allievo si presenti ubriaco nel cuore della notte, facendo un baccano infernale e svegliando tutti gli altri per costringerli a una partita a carte a Lanzichenecchi2. “Sarebbe una cosa normale a Parigi; ma a Roma è un avvenimento in una vita così ben regolata come la nostra”, commenta Bizet.
La vita qui è molto piacevole, il vitto eccellente. La sera ci ritroviamo a tavola, e il dopo cena si passa di solito nel salone degli allievi. Chiacchieriamo, ci riscaldiamo, facciamo una partita a trentuno [una specie di Blackjack]. In breve non si può star meglio di così.
I lavori dei residenti [anche se Bizet usa il termine les envoies, “gli inviii”], come ti ho detto, sono piuttosto mediocri, quest’anno. I pittori sono sempre divisi in due campi: i coloristi e i disegnatori. Sfortunatamente, i coloristi non sanno usare il colore tanto quanto i disegnatori, e i disegnatori ignorano il disegno tanto quanto i coloristi. Alla fine forse qualcosa ne uscirà, da tutto questo. Gli scultori sono meglio […]. Quanto agli architetti, i loro disegni sono sempre ombreggiati [lavés] alla perfezione. Gli incisori sono eccellenti… ma che cos’è un incisore?
In cambio dell’ospitalità a Villa Medici e della borsa di studio (“360 franchi all’anno, meno di un franco al giorno. È poco, ma sarà sufficiente”), gli artisti devono produrre delle opere da mandare a Parigi, e infatti Bizet le chiama envois, invii. Nel suo soggiorno a Roma Bizet compone per prima cosa un Te Deum. Come capita ai giovani artisti, non sa cosa pensare della propria opera, “a volte la trovo buona, altre volte detestabile”, ma decide che non è tagliato per la musica sacra. Così per la sua seconda prova compone l’opera buffa Don Procopio, attirandosi i rimproveri dell’Accademia di Francia, che invece si aspettava una messa3. Dopo molti tentativi ed esitazioni, Bizet decide di proseguire comunque sulla sua strada, quindi niente musica sacra: si mette invece al lavoro sull’ode sinfonica Vasco da Gama.
Nelle lettere del giovane Bizet ci sono quindi i classici dubbi dell’artista che si sta ancora formando, ma in generale mi sembra un tipo piuttosto sicuro di sé. Forse sono più interessanti i suoi gusti musicali.
Ci sono due tipi di genio: il genio della natura e il genio della ragione. Pur ammirando il secondo, non ti nasconderò che il primo ha tutte le mie simpatie. Sì, mio caro, ho il coraggio di preferire Raffaello a Michelangelo, Mozart a Beethoven, Rossini a Meyerbeer.
Ah! Ci vuole molta forza per fare arte. È dura, davvero molto dura, a Roma soprattutto. Il vento di scirocco ha un’influenza inaudita sui nervi. tu mi conosci e sai che non sono un tipo nervoso di natura: ebbene! i giorni di scirocco, non posso toccare né il Don Giovanni, né le Nozze, né Così fan tutte; la musica di Mozart agisce troppo direttamente su di me e mi fa sentire davvero male. Certe cose di Rossini hanno su di me lo stesso effetto. Cosa sorprendente, Beethoven e Meyerbeer non arrivano mai a quel punto. Quanto a Haydin, è da tempo che mi fa dormire, così come il vecchio Grétry. Non parliamo poi di Boïeldieu, di Nicolo, eccetera, che non esistono più per me…
Ma che musica ascolta a Roma, Bizet? La città risuona di Miserere e di musica sacra, e abbiamo capito che a lui non interessa, e per il resto offre poco altro. A parte qualche serata al Teatro Argentina, si suona principalmente nelle case private, ma a Bizet non piace molto esibirsi in pubblico. Proprio in quegli anni capita a Roma Franz Liszt4, ma non è chiaro se Bizet lo abbia visto esibirsi. Nelle sue lettere invece si parla molto di Giuseppe Verdi: al giovane compositore francese piacciono Il Trovatore, La Traviata, il quarto atto del Rigoletto, ma in generale Verdi non è uno dei suoi preferiti:
Verdi è un uomo di grande talento, che manca della qualità essenziale che fa i grandi maestri: lo stile. Ma ha degli slanci di passione meravigliosi. La sua passione è brutale, è vero, ma è meglio essere passionali in questo modo che non esserlo per nulla. La sua musica esaspera talvolta, ma non annoia.
Come si sarà ormai capito, la vita di Bizet a Roma è tutta concentrata a Villa Medici e nella cerchia di artisti che vi soggiornavano. Certo, Bizet fa lunghe passeggiate , visita quel che c’è da visitare, ma per lui, come per gli altri allievi dell’Accademia, è impossibile conoscere i romani, “vista la completa esclusione dei francesi dalla società italiana”. Il fatto è che in quegli anni Roma era in pratica militarmente occupata dalle truppe francesi, che erano in città dal 1849, quando avevano messo fine alla Repubblica romana di Mazzini e avevano riportato sul trono Papa Pio IX. Si capisce che i francesi non fossero proprio benvoluti. Bizet ci racconta anche di frequenti risse tra soldati francesi e gendarmi italiani.
Così gli artisti dell’Accademia di Francia vivono separati dai romani. Se ne accorge in particolare uno degli amici di Bizet, lo scrittore e saggista Edmond About. Incaricato dal governo francese di scrivere una serie di reportage da Roma, “About ha trovato tutte le porte chiuse”, racconta Bizet, e infine “ha talmente esaurito, demolito e scontentato il clero romano, e in generale tutta la popolazione, che il ministro l’ha richiamato e ha fatto interrompere i suoi feuilletons sul Moniteur”5.
I francesi sono poco amati qui. Solo Monsieur Schnetz è ricevuto nella buona società italiana; ma lui è italiano nel cuore. Ha passato vent’anni in Italia e ha sposato gli interessi e i gusti italiani fino al punto di non lavarsi mai le mani.
Questa perfida frecciatina a proposito dell’igiene degli italiani non è un caso isolato. Agli occhi di un giovane francese come Bizet, pur proveniente da una famiglia non particolarmente ricca, l’Italia appare irrimediabilmente arretrata. Del resto Bizet arrivava dalla Francia di Napoleone III, una delle nazioni più potenti al mondo in quel momento, mentre l’Italia era ancora divisa in tanti staterelli. Ma siamo appunto nel 1859, e il giovane compositore assisterà alla Seconda guerra d’indipendenza, anche se un po’ a distanza: questa parte della sua corrispondenza è talmente interessante che ho deciso di dedicarle una puntata a parte, prossimamente su questa newsletter.
Già nel viaggio verso Roma Bizet era stato colpito dalla quantità di mendicanti per le strade. A Roma sono una presenza costante, insieme a quella dei ladri. In generale, secondo Bizet, la polizia se la intende con loro, a meno che la vittima non sia un personaggio eccellente, ad esempio il parente di un cardinale. I ladri riescono a intrufolarsi anche a Villa Medici.
Uno dei nostri compagni, Maniglier [uno scultore], ha un cane a cui vuole molto bene, Galathée. Tutte le sere chiude questa interessante bestia nel suo atelier, che è isolato nel mezzo del giardino. Ora, l’altra sera, tre o quattro di noi, rientrando all’una del mattino, hanno trovato il suddetto cane mentre si aggirava per le scale. Hanno avvertito il suo padrone, che sosteneva di averlo chiuso nell’atelier: dei ladri si erano dunque introdotti. Ci siamo alzati, ci siamo armati di fucili, pistole, sciabole, spade, pinzette, bastoni, scope, eccetera; ma i farabutti erano già fuggiti.
I signori ladri sono stati anche nell’atelier di Clément [un pittore], e l’hanno devastato; - sono entrati dal tetto, cosa che denota una grande conoscenza del luogo. Per fortuna tutti questi signori hanno lasciato solo cose di poco valore nei loro atelier, così la caccia è stata magra.
La malaria è un’altra presenza ingombrante, non solo nei paesi dei Colli Albani (dove Bizet va in gita nell’estate del 1858), ma anche a Roma, e soprattutto d’estate.
La febbre qui è dappertutto, più o meno. Intere vie sono malsane. Alla basilica di San Paolo, a cinque minuti da Roma, a mezz’ora dal Pincio, la malaria dilaga con tutta la sua forza, e le case sono deserte durante i tre mesi estivi. - Siamo in dieci in questo momento all’Accademia; tre di noi hanno la febbre.
Nonostante tutti i disagi, Bizet si innamora rapidamente di Roma.
Se gli italiani chiudono le loro case, non possono chiudere i loro musei, la campagna, le chiese, il cielo; e l’uomo che sente il bello e il vero, artista o no, trova qui di che ammirare e ragionare.
Mi affeziono a Roma sempre di più. Più la conosco, più l’amo. Tutto è bello qui. Ogni strada, anche la più sporca, ha un qualcosa, un suo carattere particolare o qualcosa dell’antica città dei Cesari. Fatto sorprendente, le cose che più mi avevano urtato al mio arrivo a Roma fanno ora parte della mia esistenza: le ridicole madonne sopra ogni lampione, la biancheria stesa a tutte le finestre, il letame in mezzo alle piazze, i mendicanti, eccetera. Tutto questo mi piace e mi diverte, e urlerei all’assassinio se mi togliessero anche solo un pezzetto.
A parte un viaggio nel Lazio e uno a Napoli nell’estate del 1859, Bizet rimane sempre a Roma. Quando nell’agosto del 1860 lascia infine il suo posto all’Accademia, progetta un viaggio a Venezia prima di tornare a Parigi.
Il mio addio all’Accademia è stato molto caloroso. Non ne ho mai visti di simili. Anche coloro che ritenevo indifferenti mi hanno stretto la mano con le lacrime agli occhi. Quanto a me, ho avuto un attacco di nervi spaventoso, ho pianto per sei ore senza interruzione. Mi sono reso conto che ero amato all’Accademia e questo mi ha colpito. Ho lasciato dei bei ricordi, e persone che rimpiango davvero.
Nel viaggio verso Venezia, Bizet comincia a pensare a una nuova opera.
Ho in testa una sinfonia che vorrei intitolare Roma, Venezia, Firenze e Napoli. Funziona a meraviglia: Venezia sarà il mio andante; Roma, il mio primo movimento; Firenze, il mio scherzo, e Napoli, il mio finale. È un’idea nuova, credo.
La vita di Bizet, una volta rientrato a Parigi, non sarà semplice, tra la malattia della madre, gli insuccessi artistici e le difficoltà economiche. Forse per questo continuerà a pensare con affetto ai suoi anni in Italia e a lavorare alla sua sinfonia italiana: la pubblicherà infine nel 1871 col titolo Roma.
Ho un taccuino, e ho già preso molti appunti musicali. Potranno essere utili; e poi, sono dei ricordi dell’Italia.
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Qui Bizet scrive n'était que de la Saint-Jean, che non saprei proprio come tradurre… forse è un riferimento alla Festa di San Giovanni e al solstizio d’estate. Mah!
Bizet chiama questo gioco lansquenet, in Italia si chiama anche zecchinetta, qui ci sono le regole.
Il giudizio dell’Accademia, riportato da Bizet nelle sue lettere, è questo: “Dobbiamo rimproverare Monsieur Bizet di aver fatto un’opera buffa quando il regolamento richiedeva una messa. Gli ricordiamo che anche gli spiriti più allegri trovano nella meditazione e nell’interpretazione delle cose sublimi uno stile indispensabile anche nelle produzioni più leggere, e senza il quale un’opera non può essere duratura”.
Vedi la puntata I pellegrinaggi di Franz Liszt.
Nel 1859 Edmond About riuscì comunque a pubblicare un saggio, intitolato La questione romana, in cui descriveva la situazione politica e sociale a Roma e negli Stati della Chiesa. Ecco un breve estratto a proposito della divisione in classi a Roma: “Un sistema di mecenatismo e di clientele mette in ginocchio il plebeo davanti a un uomo della classe media, che si inginocchia davanti a un principe, che si inginocchia a sua volta e ancora più in basso di fronte al clero sovrano. A venti leghe dalla città, ci si inginocchia con difficoltà; al di là degli Appennini, non lo si fa per niente. Se andate fino a Bologna, potrete ammirare nei costumi un’eguaglianza tutta francese: è uno degli effetti del fatto che Napoleone è passato di là”.