La rivoluzione di Jacques-Louis David
Prima di diventare il pittore della Rivoluzione francese e di Napoleone, l'artista visse dal 1775 al 1780 a Roma, dove - con qualche difficoltà - imparò la lezione dell'arte classica e di Raffaello
Se pensiamo a Napoleone, è inevitabile che ci venga in mente uno dei dipinti in cui lo ritrasse Jacques-Louis David: può essere il condottiero a cavallo che ha appena varcato il Gran San Bernardo, o il novello imperatore, o ancora il generale nel suo studio alle Tuileries. Probabilmente nessuno più di lui ha contribuito a costruire il mito di Napoleone, e mito, come vedremo, non è una parola che si può usare a caso quando si parla di David.
Ma torniamo indietro, prima della Rivoluzione del 1789, torniamo per la precisione al 1771, quando David, a 23 anni, era un giovane pittore ancora sconosciuto. In quell’anno si preparava a partecipare al Prix de Rome, il concorso che gli avrebbe permesso di ottenere una borsa di studio e di soggiornare a Roma, all’Accademia nazionale di Francia. David partecipò quattro volte al concorso prima di riuscire a vincerlo. Ogni anno la giuria dava un tema su cui gli artisti dovevano lavorare: nel 1771 David arrivò secondo, nel 1772 anche, e la prese particolarmente male1:
Progettai di non espormi più, d’ora in avanti, a una nuova umiliazione. Medito il mio progetto, mostro un volto calmo davanti ai miei genitori e soprattutto davanti a mio zio, che si apprestava a portarmi in campagna con la sua carrozza. Faccio cambiare piani, preferisco cenare con lui a Parigi.
Mi ritiro mostrando sempre la più calma indifferenza; ma infine libero, solo con me stesso, mi dispongo a eseguire il mio progetto: quel progetto, ahimé!, era di lasciarmi morire di fame. Mi trovavo in uno stato tale che, come si può facilmente credere, non avevo più appetito: il giorno dopo, uguale. La debolezza s’impossessò di me il giorno dopo ancora. Infine passarono due giorni e mezzo prima che le persone che abitavano in casa con me, sentendo i miei sospiri, andarono ad avvertire Monsieur Sedaine, nella cui casa alloggiavamo.
Tranquillizzato da amici e colleghi, David partecipò di nuovo al Prix de Rome nel 1773, senza vincerlo, ma infine riuscì a ottenere il premio nel 1774. Si aprivano finalmente per lui le porte dell’Italia e di Roma. Ma c’era un motivo per cui David aveva fatto così fatica a convincere i giudici parigini: per aggiudicarsi il Prix de Rome il giovane pittore aveva dovuto in qualche modo adeguarsi allo stile dell’epoca, ancora legato al barocco, ma una volta giunto in Italia non tardò a scoprire che proprio quello stile era da ripensare completamente.
Nel 1775, durante il viaggio verso Roma fatto in compagnia del suo maestro, Joseph-Marie Vien (appena nominato direttore dell’Accademia), le convinzioni di David crollarono molto rapidamente. Bastò una sosta a Parma, per visitare gli affreschi del Coreggio nella cupola della cattedrale, per aprire le prime crepe.
Qualche successo nel cattivo genere della pittura d’allora e gli elogi indiscreti di certi professori che mi raccomandavano fortemente di non cambiare il mio stile e di non fare come certi pittori che per averne voluto prendere un altro erano tornati da Roma peggiori di come erano partiti, mi fortificava nell’idea di mantenere il mio stile, ma ahimè quelli che mi avevano dato così cattivi consigli avevano visto davvero male l’Italia, perché appena fui a Parma, vedendo le opere del Correggio, mi trovai già inebriato; a Bologna cominciai a fare delle tristi riflessioni, a Firenze ne fui convinto, ma a Roma mi vergognai della mia ignoranza. Stordito da tutte le bellezze che mi circondavano non sapevo su quale fermarmi.
Vien consigliò al suo allievo di impiegare il primo anno a Roma solo a studiare e copiare le opere dei grandi maestri dell’antichità e del Rinascimento. Così David riempì pagine e pagine di disegni, tra cui troviamo alcune bellissime vedute di Roma.
Per David Roma e l’arte classica e rinascimentale furono uno shock culturale, proprio come era successo, solo pochi anni prima, allo scultore svedese Johan Tobias Sergel2. “Bisogna studiare tutto da capo”, aveva scritto Sergel, e anche David dice la stessa cosa, in altri termini.
Mi sembrava di essermi appena fatto un’operazione di cataratta. Capii che non potevo migliorare il mio stile perché la sua base era falsa e che bisognava abbandonare tutto ciò che avevo creduto essere il bello e il vero. Capii che copiare la natura senza scegliere è fare un mestiere volgare con maggiore o minore abilità; e che invece lavorare come gli Antichi o come Raffaello voleva dire essere veramente un artista.
David passò sei mesi a copiare i bassorilievi della Colonna Traiana, e poi le opere di Domenichino, Michelangelo e “soprattutto Raffaello”.
Raffaello uomo divino! Sei tu che pian piano mi hai innalzato fino all’antico! Sei tu, pittore sublime! Sei tu che tra i moderni sei arrivato più vicino a quei modelli inimitabili. […] Così dopo trecento anni d’intervallo, come premio del mio entusiasmo per te, degnati o Raffaello, di riconoscermi ancora come uno dei tuoi allievi.
Se questi toni vi sembrano esagerati, ricordatevi che qualche anno dopo anche Dominique Ingres li userà3, definendosi "un fanatico di Raffaello". Evidentemente il pittore di Urbino era visto come un ponte tra l’antico e il moderno.
Continuai dunque a regolarmi a Roma secondo questi principi quando, volendo provare le mie forze nella composizione, decisi di fare sulla tela un grande schizzo abbastanza rifinito che rappresentava la morte di Patroclo.
Questa composizione piacque abbastanza a Roma, si vedeva una tendenza verso il gusto antico, ma ahimé! si vedevano ancora certe tracce francesi. Le riconoscevo io stesso e mi proponevo di correggerle non appena l’occasione si fosse presentata.
Gli esercizi proseguivano, e negli anni romani David continuò ad attingere dal mondo classico e dall’Iliade in particolare, come in questi due dipinti dove sono raffigurati Patroclo ed Ettore.
David fece anche un viaggio a Napoli, per visitare Pompei ed Ercolano, poi visse un periodo di depressione, a quanto pare a causa di una storia d’amore finita male. In suo soccorso venne ancora il maestro Joseph-Marie Vien, che gli fece avere l’incarico di realizzare un dipinto per il Lazzaretto di Marsiglia a commemorare l’epidemia di peste che aveva colpito la città nel 1720. Nacque così San Rocco intercede presso la Vergine per la guarigione degli appestati, la prima opera con cui David riuscì ad affermarsi prima a Roma e poi a Parigi, dove la portò con sé.
Rientrato a Parigi nel 1780, David completò il dipinto iniziato a Roma Belisario chiede l’elemosina (1780). Nel 1781 espose la sua produzione romana al Salon, ottenendo il plauso della critica (tra cui quello di Denis Diderot). Nel 1784 fece un secondo breve viaggio a Roma, dove completò Il giuramento degli Oriazi, praticamente il manifesto del neoclassicimo.
Solo cinque anni dopo, nel 1789, tutto sarebbe cambiato. David non abbandonò mai i temi classici - ancora nel 1814 dipinse Leonida alle Termopili - ma improvvisamente era l’attualità a dargli nuovi soggetti su cui lavorare. David illustrò le principali tappe della Rivoluzione, dal giuramento della Pallacorda alla morte di Marat, disegnò perfino Maria Antonietta condotta al patibolo. Poi divenne il pittore di Napoleone. Oltre ai ritratti, dipinse la sua incoronazione a Notre Dame e il giuramento dell’esercito all’Imperatore dopo la distribuzione delle aquile: due dipinti in cui David applicò tutte le lezioni imparate dall’arte classica, trattando le gesta di Napoleone come se provenissero da un poema epico o fossero scolpite sulla Colonna Traiana.
La Rivoluzione francese investì anche aspetti più quotidiani della vita, come il modo di vestirsi e di portare i capelli. Me ne sono accorto lavorando al mio fumetto: via le parrucche incipriate che ancora Goethe usava, via le acconciature barocche che portavano le grandi dame, sì ai capelli scapigliati e alle basette. David stesso incarnava questo cambiamento, come si può notare in questi due autoritratti, eseguiti a distanza di pochi anni.
David non si limitò solo a dipingere: fu anche deputato alla Convenzione nazionale, giacobino e sostenitore di Robespierre. Così, quando nel 1815 tutto finì e Luigi XVIII si reinsediò sul trono di Francia dando il via alla restaurazione, per David si aprì la via dell’esilio. Inizialmente il pittore aveva sperato di potersi rifugiare a Roma, contando anche sulla benevolenza di Papa Pio VII, di cui qualche anno prima aveva dipinto il ritratto. Sarebbe stato un bellissimo finale per questa newsletter. Ma l’autorizzazione non gli fu concessa, e David fu costretto a trasferirsi a Bruxelles, dove morì una decina d’anni dopo, nel 1825.
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Le parole di David sono prese da un breve testo autobiografico che il pittore scrisse nel 1808: la versione integrale è qui.
Ne avevamo parlato nella puntata La disperazione dell’artista.
Come abbiamo visto nella puntata Ingres innamorato.