I menu di James Joyce
Nelle lettere dello scrittore la nostalgia è spesso associata al cibo: a Trieste gli mancano i piatti irlandesi, ma poi a Dublino si trova a desiderare capuzi garbi, torroni e presnitz
Lo so, la sagoma magrolina di James Joyce non fa certo pensare a un buongustaio. E invece, leggendo le lettere che Joyce scriveva da Trieste, continuo a trovare riferimenti al cibo1. La trovo una cosa inaspettata e buffa. In particolare il cibo è associato alla nostalgia: e ci sono due lettere, una scritta da Trieste a Dublino, l’altra da Dublino a Trieste, che secondo me sono da leggere in coppia.
Il rapporto di James Joyce con la sua patria d’origine è senza dubbio paradossale. Aveva deciso lui di lasciare Dublino e l’Irlanda, in una sorta di auto-esilio, eppure poi non fece altro che scrivere dell’Irlanda, a partire da Gente di Dublino… e forse fu proprio per scrivere, per staccarsi dall’oggetto della sua narrazione, che scelse di andarsene. Con lui c’era Nora Barnacle, che sarebbe divenuta la compagna di una vita, ma allora, nell’autunno del 1904, al momento di lasciare l’Irlanda, James aveva 22 anni, Nora 20, e si conoscevano solo da pochi mesi.
Nelle prime lettere di Joyce da Trieste, indirizzate al fratello Stanislas, l’unico cedimento da parte dello scrittore alla nostalgia per l’Irlanda è espresso tramite una lista di cibi tipici:
Ti confesserò che mi piacerebbe molto mangiare una fetta di cosciotto di montone bollito con rape e carote. Desidererei anche una fetta di carne di manzo e cavolo, una buona colazione preparata alla griglia, e (scusa la gerarchia) un supra-burgher [Qui non saprei proprio tradurre, burgher dovrebbe voler dire cittadino] intelligente come te per condividere il pasto. Nora desidera vedere un bollitore di fianco a un fuoco e, anche se il mio desiderio è forse passeggero, temo che il suo sia permanente.
La meta originaria del viaggio di Joyce era in realtà Zurigo, dove gli era stato garantito un posto da insegnante d’inglese alla Berlitz School. Il posto invece non c’era, così James e Nora furono dirottati prima nella sede di Pola e infine, nel marzo del 1905, a Trieste. Qualche mese dopo, nel luglio 1905, ecco come Joyce descrive la città2 al fratello Stanislas:
Devo dirti, prima di tutto, che Trieste è il posto più volgare in cui sia mai stato. È a stento possibile esagerare l’inciviltà della gente. Le ragazze e le donne sono così maleducate con Nora che lei ha paura di uscire in strada. Nora parla circa trenta parole di dialetto triestino (ho provato e fallito nell’insegnarle il francese) e così ogni volta che esce devo accompagnala e spesso devo passare un pomeriggio per comprare a un prezzo ragionevole anche qualcosa di molto semplice.
In più Nora è ormai vistosamente incinta, e la coppia non è sposata (il matrimonio sarà celebrato solo nel 1931!).
Devo anche dirti che appena la sua condizione [di Nora] è diventata evidente siamo stati mandati via dai nostri alloggi. Questo è accaduto tre volte finché non ho concepito l’ambizioso piano di vivere nella casa di fianco alla scuola, stupendo la padrona di casa con il fascino di quel meraviglioso edificio. Questa trovata ha avuto successo finora ma siamo ancora nell’imminente pericolo di essere mandati via. Il direttore della scuola e il vicedirettore (un vegetariano, e un tedesco) hanno entrambi mogli ma nessun bambino. Il direttore, quando ha visto Nora, ha detto che pensava che dovessi essere completamente matto. Anche il vicedirettore è sconvolto. […] Capirai che atmosfera interessante respiro ma - proseguendo. Nora si lamenta quasi di continuo. Riesce a mangiare molto poco di questi sciatti piatti italiani e qualunque cosa mangi le provoca dolore al petto. Beve birra ma basta una piccola cosa per farla star male.
Faccio notare che qui c’è un’altro riferimento al cibo: nell’originale Joyce parla di sloppy Italian dishes3.
La gente di Trieste è molto “stilosa” nel vestire, spesso si affamano in modo da poter sfoggiare bei vestiti sul molo e lei [Nora] col suo corpo deformato (Eheu! peccatum?) e la sua gonna corta da quattro corone e i capelli acconciati sopra le orecchie è sempre oggetto di risatine e di gente che si dà di gomito.
Trieste non è molto economica e le difficoltà di un insegnante di inglese che vive con una donna sulla base di uno stipendio adatto a un muratore o a un fuochista, da cui ci si aspetta che mantenga un’apparenza “da gentleman” e che assecondi il suo cuore da intellettuale con visite occasionali a un teatro o a una libreria, sono molto grandi.
L’impatto iniziale è abbastanza simile a quello che abbiamo visto per altri viaggiatori4 (soprattutto per gli anglosassoni!) alle prese con città mediterranee. Ma nel giro di pochi anni l’opinione di Joyce cambia radicalmente. E nel frattempo la famiglia si allarga: il 27 luglio 1905 nasce George (poi ribattezzato Giorgio) - “Xe un bel maschio, signore”, è la frase della levatrice riportata da Joyce -. Qualche mese dopo anche il fratello Stanislas si trasferisce a Trieste, e due anni dopo, il 26 luglio 1907, nasce la secondogenita Lucia.
A parte una parentesi di pochi mesi a Roma (dove Joyce sperava di trovare un impiego pagato meglio, ma ne parleremo magari in un’altra puntata), la famiglia si ambienta a Trieste, pur cambiando casa più o meno ogni anno. Nel 1909 Joyce torna per la prima volta in Irlanda, accompagnato dal piccolo Giorgio: il viaggio serve a presentare il bambino alla famiglia ma anche per tentare di pubblicare Gente di Dublino5.
Ed è qui che ci accorgiamo che la città “volgare” inizialmente descritta da Joyce è diventata una casa e un rifugio. Le lettere di questo periodo sono indirizzate a Nora - ed è un po’ imbarazzante leggerle, è come se oggi scorressimo la chat di una coppia - mi limito quindi a riportare alcuni brani che trovo significativi.
La nostra bella Trieste! Ho spesso pronunciato questa frase con rabbia ma stanotte la sento vera. Vorrei tanto vedere le luci brillare sulla riva mentre il treno costeggia Miramar. Dopotutto, Nora, è la città che ci ha dato rifugio. Vi sono ritornato esausto e senza soldi dopo la mia pazzia a Roma e vi torno di nuovo ora dopo questa assenza.
Mia cara, stanotte la vecchia febbre dell’amore ha cominciato a risvegliarsi in me. Sono solo l’involucro di un uomo: la mia anima è a Trieste. Tu sola mi conosci e mi ami. […] Detesto l’Irlanda e gli irlandesi. E mi fissano per la strada anche se sono nato tra di loro. Forse mi leggono negli occhi l’odio che provo per loro. […] Non mi fa bene venire qui ed essere qui.
Al confronto Trieste è una casa sicura, e anche la lingua italiana in queste lettere si fa sempre più spazio, sgomitando tra le parole inglesi. Però è la cucina di casa in particolare, il luogo a cui Joyce vuole tornare.
[…] Non lascerò quella cucina per un’intera settimana dopo il mio arrivo, leggerò, mi appisolerò, fumerò e ti guarderò preparare i pasti e ti parlerò, parlerò, parlerò, parlerò. O quanto sarò sommamente felice! Dio del cielo, sarò felice lì! I figlioli, il fuoco, una buona mangiata, un caffè nero, un Brasil, il Piccolo della Sera, e Nora, Nora mia, Norina, Noretta, Norella, Noruccia ecc ecc…
Tutta questa ultima frase è scritta in italiano, compreso l’elenco di diminutivi (be’, questo dimostra una certa padronanza della lingua!). E infine, una lettera che è lo specchio di quella con cui abbiamo iniziato, ma qui il menu è decisamente cambiato, e i piatti irlandesi e triestini si sono irrimediabilmente mescolati.
Oh, che fame che ho adesso. Il giorno in cui arrivo chiedi a Eva di fare uno dei threepenny pudding e una qualche salsa alla vaniglia senza vino. Vorrei roast-beef, zuppa di riso, capuzzi garbi, mashed potatoes, pudding e caffè nero. No, no vorrei stracotto di maccheroni, un’insalata mista, prugne in umido, torroni, tè e presnitz. Oppure no vorrei uova in umido o polenta con…
Scusami, cara, sono affamato stanotte.
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In molti altri viaggiatori mi aveva colpito invece la quasi totale mancanza di riferimenti al cibo, come ho provato a raccontare nel post A pranzo con Goethe.
Tutte le lettere sono intestate Trieste, Austria: in questi anni la città è ancora parte dell’Impero Austro-ungarico.
Potrebbe anche voler dire che i piatti italiani sono troppo “acquosi”.
Ne avevo scritto già in questo post intitolato Contro gli italiani.
Ma a Dublino Joyce trova anche il tempo per fondare la prima sala cinematografica d’Irlanda, il Volta Electric Theatre.