Mary Shelley e la pandemia del 2099
Nel romanzo "L'ultimo uomo" i superstiti di un'epidemia globale intraprendono un viaggio in un'Italia deserta. È una distopia, ma anche una gigantesca elaborazione dei lutti vissuti dalla scrittrice
Nell’anno 2099 una pandemia ha cancellato l’umanità dalla faccia del pianeta. Gli unici sopravvissuti sono un piccolo gruppo di inglesi che, dopo aver attraversato l’Europa, valicano le Alpi ed entrano in Italia in cerca di un clima più mite. È con questo strano viaggio in Italia che termina L’ultimo uomo, il romanzo di fantascienza distopica che Mary Shelley pubblicò nel 18261, pochi anni dopo il suo ritorno in Inghilterra.
Non pensavo davvero di imbattermi nel genere fantascientifico in questa newsletter, ma sentite come Mary descrive l’arrivo in Italia dei protagonisti. Sembra davvero che abbia previsto le scene a cui abbiamo assistito nel 2020, durante il primo lockdown dovuto all’epidemia di Covid-19.
Nelle città, città senza voci, visitammo le chiese, adornate da pitture, capolavori dell’arte, o gallerie di statue - mentre in questo clima amichevole gli animali, nella nuova libertà appena trovata, vagavano tra i magnifici palazzi, e a stento provavano paura per il nostro aspetto, ormai dimenticato.
I sopravvissuti poi visitano Venezia:
Remammo con dolcezza sulla laguna ed entrammo nel Canal Grande. La marea rifluiva cupa dai portoni rotti e dalle sale violate di Venezia: alghe e mostri marini rimanevano deposti sul marmo annerito, mentre il fango salato deturpava opere d’arte impareggiabili che adornavano le pareti, e i gabbiani volavano fuori dalle finestre in frantumi.
E infine il protagonista Varney, rimasto ormai l’ultimo uomo sulla Terra, entra a Roma:
L’ampia piazza, le chiese circostanti, la lunga via del Corso, la presenza incombente di Trinità dei Monti, apparivano come opere incantate, erano così silenziose, così pacifiche e così belle. Era sera e la popolazione di animali che ancora esisteva in questa imponente città era andata a riposare; non c’era nessun suono a parte il mormorio delle sue molte fontane.
Come accennavo, qui siamo nell’ultima parte del romanzo, ma la vicenda è molto più lunga e articolata (sono tre volumi!). Ho usato il termine fantascienza, ma non è corretto, perché qui non c’è traccia di scienza, il mondo descritto ne L’ultimo uomo è pressoché identico a quello in cui viveva Mary: tra l’inizio del XIX secolo e la fine del XXI la scrittrice inglese non ha immaginato nessuna innovazione tecnologica.
Anche il termine distopia non è proprio esatto. Non è un futuro alternativo, ma piuttosto una profezia. Nell’introduzione al romanzo Mary Shelley utilizza il classico espediente del manoscritto ritrovato, ma con una notevole variante: la storia che si accinge a raccontare è quella che ha trovato nell’Antro della Sibilla, vergata su tante foglie di palma miracolosamente conservatesi nei secoli2. La scrittrice descrive anche la sua visita nella caverna, insieme al compagno Percy Shelley, realmente avvenuta nel dicembre del 1818.
I nostri Lazzeroni [così Mary chiama le guide locali] portavano torce ardenti, che facevano splendere di un rosso quasi ruggine gli umidi passaggi sotterranei, la cui oscurità li circondava come se fosse assetata, ingorda di assorbire sempre più e più l’elemento della luce. Passammo sotto un arco naturale, che portava a una seconda galleria, e chiedemmo se potevamo entrare anche lì. Le guide indicarono il riflesso delle loro torce nell’acqua che la ricopriva, lasciando che arrivassimo da soli alle conclusioni; ma aggiunsero che era un peccato, perché la galleria conduceva all’Antro della Sibilla. La nostra curiosità ed entusiasmo si accesero per questa circostanza e insistemmo per provare a passare.
In questa visita presumibilmente corrispondente alla realtà si inserisce ora la fantasia della scrittrice, che immagina lei e Percy vagare in cunicoli bui e sempre più stretti, fino a sbucare in una grande caverna dal soffitto a cupola.
Alla fine il mio amico [cioè Percy], che aveva raccolto alcune delle foglie disseminate lì intorno, esclamò “Questo è l’antro della Sibilla: queste sono le foglie della Sibilla”. Esaminandole, scoprimmo che su tutte le foglie, sui pezzi di corteccia e su altri materiali, erano tracciati dei caratteri. Quello che ci sembrò ancora più incredibile fu che queste scritture erano in vari linguaggi: alcuni sconosciuti al mio compagno, Caldeo antico, e geroglifici egiziani, vecchi come le Piramidi. Ancora più stranamente, alcuni erano in idiomi moderni, in inglese e in italiano. Potemmo capirne poco in quella debole luce, ma sembravano contenere profezie, relazioni dettagliate di eventi verificatisi solo di recente.
L’ultimo uomo uscì nel 1826. fu recensito malissimo e non venne più ripubblicato fino al 1965. Da allora è stato in parte rivalutato, ad esempio come romanzo sul crollo degli ideali romantici, ma qui posso spingermi a proporre anche un’altra lettura.
Gli ultimi capitoli del libro - quelli del viaggio in Italia, appunto - sembrano una riscrittura degli anni italiani di Mary. Il gruppo di sopravvissuti che ne L’ultimo uomo varca le Alpi per stabilirsi in Italia è composto dal narratore Varney e da una coppia, Adrian e Clara, in viaggio insieme al loro bambino, Evilyn. Questi personaggi sono chiaramente modellati sugli stessi Mary e Percy3, che nel 1818 arrivarono in Italia insieme ai figli piccoli Clara e William, alla sorellastra di Mary, Claire, e a sua figlia Allegra.
Così in questa parte finale L’ultimo uomo sembra una gigantesca elaborazione del lutto. O meglio dei lutti che Mary aveva vissuto durante il suo periodo italiano: la morte dei due bambini, e del piccolo William in particolare, e quella del marito Percy Shelley, tutte avvenute in Italia.
Ne L’ultimo uomo, i sopravvissuti alla pandemia sembrano inizialmente trovare un po’ di pace, in una situazione molto simile a quella che gli Shelley avevano vissuto a Casa Magni, a San Terenzo, nelle Cinque Terre.
A dieci miglia da Como, sotto le ripide alture delle montagne orientali, sulla riva del lago, c’era una villa chiamata Pliniana, perché era stata costruita sul luogo di una fonte di cui Plinio il giovane descrisse il perenne fluire e rifluire nelle sue lettere. Questa casa era praticamente caduta in rovina quando nell’anno 2090 un nobiluomo inglese l’aveva comprata e fornita di ogni lusso. […] Qui fissammo la nostra residenza estiva.
Non eravamo felici in questo ritiro paradisiaco? Se un qualche spirito avesse soffiato su di noi per farci dimenticare tutto il resto, credo che avremmo potuto essere felici lì.
Ma la tragedia è alle porte, presto il piccolo Evilyn si ammala di tifo e muore nel giro di pochi giorni. Proprio come era successo al figlio di Mary, William. Ecco come questa morte è descritta dal protagonista, Varney:
Era quello il mio bambino - quell’essere inanimato, immobile, in disfacimento? Il mio bambino era estasiato dalle mie carezze; la sua cara voce rivestiva con dizioni sensate i suoi pensieri, altrimenti inaccessibili; il suo sorriso era un raggio dell’anima, e la stessa anima sedeva come su un trono nei suoi occhi. Basta con questa parodia di quello che era. Prendi, o terra, il tuo debito! Liberamente e per sempre io ti consegno l’abito che tu mi offristi. Ma tu, dolce bambino, ragazzo adorabile e amato, o il tuo spirito ha desiderato una dimora più consona o, incastonato nel mio cuore, tu vivi finché esso vive.
Più avanti, dopo aver visitato una Venezia in rovina, Clara e Adrian muoiono in un naufragio nell’Adriatico. Anche qui non posso fare a meno di pensare che Mary stia inserendo almeno un po’ della sua personale esperienza e degli stati d’animo attraversati dopo la morte di Percy, avvenuta anch’essa in un naufragio, nel luglio del 1822. Ancora nelle parole del narratore Varney:
A volte rimanevo fermo in piedi e mi torcevo le mani. Accusavo la terra e il cielo - la macchina dell’universo e il potere Onnipotente che l’aveva fuorviata. Poi di nuovo mi gettavo nella sabbia, e il vento singhiozzante, imitando un lamento umano, mi faceva rialzare in un’amara e fallace speranza. […] Il giorno passò così; ogni momento conteneva eternità. E tuttavia quando le ore, ora dopo ora, passarono, mi meravigliai del volo veloce del tempo. Ma ancora non avevo bevuto l’amaro calice fino in fondo. Non ero ancora persuaso della mia perdita. Non sentivo ancora in ogni pulsazione, in ogni nervo, in ogni pensiero che rimanevo il solo della mia specie, - che io ero L’ULTIMO UOMO.
P.S.: Abbiamo già incontrato in questa newsletter il fotografo Robert MacPherson e la pittrice Angelica Kauffamann, di cui trovate sopra le opere. Qui c'è la puntata dedicata a Robert, qui quella su Angelica (ahia, comincio a chiamarli per nome, ormai è gente di famiglia!)
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Pubblicato in Italia da Jouvence.
Nella leggenda, la Sibilla scriveva le sue profezie su foglie di palma che il vento portava via soffiando nei cunicoli della caverna, rendendo molto complicata l’interpretazione dell’oracolo.
Nel romanzo si incontra a un certo punto anche Lord Raymond, chiaramente modellato sulla figura di Lord Byron, che infatti muore in Grecia proprio come accadde al vero Byron.
che tesori incredibili stai scovando con questo viaggio…