Storia di un gigante
L'Atlante che una volta sorreggeva il Tempio di Giove ad Agrigento è da poco tornato in piedi: ma il primo a capire come ricomporlo fu un giovane inglese in viaggio in Italia, Charles Robert Cockerell
A distanza di due millenni e mezzo un’enorme statua di Atlante, alta otto metri, si erge di nuovo a guardia della Valle dei Templi, ad Agrigento. È uno dei telamoni (potremmo tradurre con reggitori) che si pensa sostenessero il Tempo di Giove Olimpico, ora ridotto a un cumulo di pietre. La statua era da tempo custodita nel Museo archeologico di Agrigento, ma da qualche settimana è stata ricollocata nella valle. Mi pare che la notizia abbia avuto più rilievo all’estero, e in particolare in Inghilterra, che in Italia, e ormai questo non mi sorprende più di tanto: sarà che gli italiani sono assuefatti alle antichità, oppure perché il primo a capire come riassemblare questo gigante di pietra fu in effetti un inglese, l’architetto e archeologo Charles Robert Cockerell, che tra il 1810 e il 1817 fece un lunghissimo viaggio nel Mediterraneo.
Quando Goethe visitò la Valle dei Templi, qualche decennio prima, descrisse così il Tempio di Giove Olimpico:
[Il tempio] si distende per un lungo tratto, come la carcassa d’uno scheletro gigantesco, entro e fuori alcuni poderi, circoscritti da siepi e sparsi di piante alte e cespugli. Ogni forma d’arte è scomparsa sotto l’ingombro di tante macerie, tranne un triglifo enorme e un frammento di colonna della stessa proporzione. Mi son provato a misurare il triglifo a braccia aperte, senza riuscire a contenerlo; quanto alla scanalatura della colonna, basti dire che, a tenermi dritto in piedi, la riempivo come se mi fossi trovato in una nicchia, toccandone la sommità con le spalle. Ventidue uomini, l’uno accanto all’altro in cerchio, rappresenterebbero pressapoco la circonferenza della colonna. Ce ne siamo allontanati, sentendo purtroppo che per un disegnatore non c’era da far nulla.
Avevo anche pensato di disegnare questa scena, ma poi ho abbandonato l’idea e mi è rimasta solo questa vignetta non finita:
Ma l’idea è resa meglio da questo acquerello di Louis Ducros del 1778 (abbiamo già parlato di questo artista nel post L’invenzione dell’acquerello).
Capire com’era fatto il tempio originale da questo ammasso di pietre era davvero un enigma, e a risolverlo fu Charles Cockerell, all’epoca 24enne, seguito da vicino nelle sue scoperte dal pittore siciliano Raffaele Politi. Ma non avrei scritto questo post se Cockerell non avesse tenuto un diario del suo viaggio e della sua impresa. In Viaggi nell’Europa meridionale e nel Levante (curato e pubblicato dal figlio Samuel Pepys nel 1903) Cockerell raccontò il periodo trascorso a Girgenti, come si chiamava allora Agrigento, per studiare il tempio.
Ricordo solo che siamo nel 1812, l’Europa era nel pieno delle guerre napoleoniche e per un inglese visitare il continente era praticamente impossibile. Così Cockerell aveva fatto un giro molto largo, da Plymouth a Malta a Costantinopoli alla Grecia, infine era sbarcato a Palermo nell’agosto del 1812. La prima cosa a colpirlo fu “la differenza tra la ricchezza della Sicilia e la desolazione della Grecia sotto il dominio turco”. Per un giovane inglese appassionato di antichità, il pensiero che la Grecia fosse parte dell’Impero ottomano, allora in crisi, era quasi insopportabile: è lo stesso spirito che spinse Lord Byron ad andare a combattere per l’indipendenza greca. Gli antichi greci piacevano talmente tanto che li si vedeva anche dove non c’erano, anche nel cuore delle Sicilia e nello specifico nel villaggio di Mezzojuso, come racconta Cockerell:
Dieci giorni più tardi partii a cavallo per Girgenti. Il secondo giorno deviai da Villafrati per visitare uno dei villaggi greci così chiacchierati e mal rappresentati. a Palermo mi avevano detto che gli abitanti sono alcuni degli antichi greci che lì si insediarono, e che sono cambiati così poco che ancora indossano sandali e sono quasi pagani. In realtà sono albanesi, emigrati nel 16esimo secolo quando l’oppressione dei turchi era particolarmente severa nel loro paese, e che arrivarono a gruppi in vari punti della Sicilia. Mezzojuso è uno dei loro insediamenti e ha circa 2 mila abitanti. […] Parlano albanese tra di loro e afferrarono prontamente le poche parole che io e il mio servitore parliamo di quella lingua. La spiegazione della notizia che li vuole quasi pagani è che conservano il rito greco [ortodosso], anche se hanno adattato l’altare alla forma cattolica e riconoscono la supremazia del Papa.
Molto presto Cockerell impara ad amare i ritmi e lo stile di vita dell’isola…
Viaggiando con i siciliani ho preso le loro abitudini, e invece di cercare un hotel sono andato con loro in un caffè dove abbiamo mangiato e bevuto. Il cafetiere, per mostrare la sua generosità, nel versare la bevanda lascia che la tazzina strabordi finché anche il piattino è pieno, dopodiché porta liquori e sigari - tutti usi per me nuovi.
Com’era diverso il nostro modo di passare le serate dall’uso solito degli inglesi! Se avessi avuto degli inglesi come compagni avremmo maledetto le tariffe e gli alloggi, e ci saremmo messi a letto brontolando per passare una noiosa e scomoda nottata. Invece, con questi siciliani, appena la fame fu soddisfatta, al suono di una chitarra nelle strade, uscimmo fuori per unirci ai suonatori, ci fermammo sotto le finestre di qualche bella ragazza che non conoscevamo e Don Raffaele, che è un perfetto maestro di chitarra, incantò gli astanti, suonò e cantò con molto gusto diverse belle melodie. Come se non fosse abbastanza per la serata, rimanemmo alzati a raccontarci storie.
In effetti nel suo diario Cockerell ci tiene a mostrarsi un vero viaggiatore, pronto ad adattarsi agli usi locali e per nulla schizzinoso come i suoi compatrioti troppo raffinati di cui si prende gioco.
I miei giorni passavano in grande pace e soddisfazione. Vivevo con la famiglia di Don Gaetano Sterlini, e quando mi abituai ai loro modi cominciarono a piacermi. Le strilla dei domesitici, le porte aperte, lo sporco e il disordine di una casa siciliana dopo un po’ divennero normali per me e non li notavo neanche più.
Ma arrivò un gentiluomo inglese, che porta il nome di Cussins, per passare due giorni da noi, non era così filosofico e si rese odioso con il suo continuo lamentarsi. Quando qualcuno entra o esce da una stanza, le porte, che mai girarono sui loro cardini, devono essere chiuse; le finestre, a cui forse mancano due o tre pannelli, devono essere chiuse; le imposte sbarrate; non poteva mangiare il loro cibo né bere il loro vino. Una creatura così raffinata è un affare spiacevole per un barbaro, così come quest’ultimo lo è per lui, e pregammo per la sua partenza.
Cockerell passò mesi a studiare le macerie del Tempio di Giove, tentando di riassemblarne i pezzi, proprio come in un puzzle.
Dopo il mio ritorno a Girgenti, rimasi lì fino al 14 novembre, dedicandomi con scrupolosa attenzione e infinito piacere al tentativo di ricostruire il Tempio di Giove Olimpico. L’esame delle pietre e il continuo esercizio dell’ingegno mi tennero molto impegnato, e alla fine la felice ricostruzione del tempio mi diedero un piacere che può essere superato solo da quello della concezione del disegno originale.
Negli ultimi giorni del mio soggiorno la mia fama si era diffusa. I clienti del Caffè dei Nobili, il vescovo e tutti gli altri, avevano saputo con stupore che avevo risolto il puzzle, e che tutti i pezzetti che componevano i giganti esistevano ancora e potevano essere rimessi insieme. Un dignitario del clero, Don Candion Panettieri, mi mandò un messaggio per dirmi che, se avessi marcato le pietre e dato indicazioni per la ricostruzione di uno dei giganti, si sarebbe incaricato delle spese per farlo. Fui tentato dalla sua offerta e dall’immediata notorietà che mi avrebbe dato, e acconsentii e completai il mio schizzo per quanto si poteva e glielo portai. Fu immediatamente copiato e, con il mio nome segnato come autore, mandato a Palermo. Poi riguardai i frammenti con Raffaele Politi e segnai le pietre corrispondenti con i numeri nel disegno.
Don Gaetano non potè trattenere la sua indignazione di fronte al mio dispiacere che i risultati di così tanto lavoro fossero lanciati nel mondo come fossero semi-anonimi, invece che in un libro diligentemente scritto e pubblicato da me, l’autore. Dal momento in cui ho passato il mio disegno a Politi perché lo copiasse non c'è stata pace tra noi. Non potevo che essere gratificato dall’interesse che [Don Gaetano] aveva nel mio successo, e il mio affetto per lui era amplificato dal sentimento che la sua bella figlia mi aveva ispirato, così forte che fu necessario per me partire, e tuttavia piansi come uno stupido quando lo feci. Ma avevo trovato la mia ricompensa nel piacere di risolvere il puzzle e anche se la fama mi piaceva, non valeva la pena di darsi così tanti problemi.
Dal diario di Cockerell sembra insomma che Politi gli abbia soffiato la scoperta… In effetti negli anni successivi fu il pittore siciliano a incoraggiare e a guidare la ricomposizione del'l’Atlante, va detto però che nei suoi scritti dell’epoca - a partire da una lettera del 1819 - Politi riconobbe sempre il ruolo di Cockerell, anche se con una prosa davvero ampollosa rispetto a quella del collega.
Il Chiarissmo Inglese Sig Roberto Cockerell, giovane caro alle arti, caro agli amici, a cui io molto deggio in fatto di Greca Architettura essendo stato in Girgenti nel 1812, e fatto profondo studio sulle rovine di quel Tempio ne accennò con un schizzo […]
Nel 1826 il gigante fu riassemblato ma lasciato in posizione supina. Diverse stampe però ripresero il disegno di Cockerell per immaginarsi come doveva figurare in piedi quella statua gigantesca.
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Avevo letto recentemente la storia sul Post e alla fine rimango sempre con un dubbio: Ma come siamo rimasti in Italia a livello di teoria del restauro? Perché da quanto mi ricordo la maggiore differenza è ancora quella ottocentesca, ovverosia fra fautori del restauro integrativo (Viollet-le-Duc) come in questo caso e restauro conservativo (Ruskin fondamentalmente), dove la politica è quella di non toccare niente ma esclusivamente di consolidare. Addirittura leggo sulla Treccani che "per Ruskin, al contrario, ogni forma di restauro integrativo altro non era che «la peggiore delle distruzioni» e delle «menzogne»; le opere, come ogni forma di vita, avevano diritto di morire, magari lentamente grazie a un’accorta prevenzione verso i fattori di degrado." Non so, in generale, guardando alla situazione nostrana, mi pare che i due approcci si equivalgano, ma sicuro mi sbaglio
Bellissima storia! Si può dire che la ricostruzione indovinata non sia frutto di eccezionali abilità o passioni, ma di un atteggiamento aperto? La descrizione delle differenze fra lui e l'inglese tipico lo suggerirebbe. Giustappunto questa mattina si parlava di entusiasmo nella pubblicazione di @stefanotodeschi disponibile qui
https://stefanotodeschi.substack.com/p/presentare-contenuti-con-entusiasmo
E in quanto ai Greci ecco forse la risposta alla presenza di comunità straniere insediate da secoli nel nostro Sud. Saranno gli stessi che attraggono me fra i Griki del Salento? 😃