Quando Antoon incontrò Sofonisba
Nel 1624 la peste colpì Palermo, ma il ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia salvò la città. In tutto questo si trovò il giovane Van Dyck, che incontrò anche la pittrice Sofonisba Anguissola
In un giorno di luglio del 1624, a Palermo, un giovane artista fiammingo andò a trovare una famosa pittrice, ormai molto anziana, per disegnare il suo ritratto dal vivo. Lui era Antoon Van Dyck, all’epoca 25enne; lei era Sofonisba Anguissola, una delle prime donne a riuscire ad affermarsi come pittrice. E a quanto racconta Van Dyck, a 96 anni era ancora molto lucida e pronta a dispensare consigli e racconti, sebbene ormai non ci vedesse quasi più. Il ritratto di Sofonisba e un breve testo su questo tenerissimo incontro si trovano nel Taccuino italiano di Van Dyck, conservato al British Museum. Van Dyck scriveva in italiano, ma qui ho un po’ adattato il suo testo per favorire la comprensione:
Ritratto della signora Sofonisba, pittrice, fatto dal vivo a Palermo il 12 di luglio dell’anno 1624: a 96 anni di età aveva ancora una memoria e un cervello potentissimo, era cortesissima, e sebbene per la vecchiaia le mancasse la vista, aveva nonostante tutto il piacere di mettere dei quadri davanti a sé e, con grande fatica, mettendo il naso sopra al quadro, riusciva a ancora a distinguere qualche cosa e in quel modo si rallegrava molto. Mentre facevo il suo ritratto, mi diede diversi consigli: non posizione la luce troppo in alto, in modo che le rughe della vecchiaia non diventassero troppo grandi, e mi raccontò molte altre cose, anche la parte della sua vita in cui si riconobbe che era una pittrice per natura e per miracolo. La sua pena peggiore era di non poter più dipingere perché le difettava la vista, ma la sua mano era ancora ferma e senza nessun tremolio.
Mi ero imbattuto in Van Dyck qualche tempo fa, leggendo il diario di viaggio di un altro pittore, l’inglese Joseph Wright of Derby1, che appuntò minuziosamente tutte le opere viste in Italia. Tra queste Wright citava il Ritratto dei tre figli maggiori di Carlo I, che aveva visto a Torino (tutt’ora il dipinto di Van Dyck si trova alla Galleria Sabauda).
E in effetti nel suo soggiorno italiano, dal 1621 al 1627, Van Dyck si dedicò soprattutto a dipingere ritratti di membri dell’aristocrazia, del clero e dell’alta borghesia di allora. Anche se giovanissimo (aveva 22 anni), Van Dyck aveva già dipinto moltissime opere e in più la strada per i pittori fiamminghi in Italia era già stata aperta da altri prima di lui ( in questa newsletter abbiamo già incontrato Rubens2 e Bruegel il Vecchio3). In particolare Rubens, di cui Van Dyck era stato allievo, aveva legato il suo nome a Genova, e dunque fu proprio Genova la base operativa del giovane pittore: Van Dyck fu ospitato da altri due artisti e collezionisti fiamminghi, Lucas e Cornelis de Wael. Ma viaggiò molto: fu a Roma, Venezia, Milano, Torino, Parma e appunto Palermo.
Tra i personaggi ritratti da Van Dyck ci sono l’aristocratica genovese Elena Grimaldi Cattaneo, il cardinale Guido Bentivoglio, il principe di Savoia e viceré di Sicilia Emanuele Filiberto e la famiglia del Doge di Genova Giacomo Lomellini, che però non compare nell’opera: a quanto pare ai Dogi era vietato farsi ritrarre in stampe o dipinti finché erano in carica.
Gli artisti fiamminghi venivano in Italia per studiare i maestri del Rinascimento e i capolavori dell’arte antica. Van Dyck però non doveva essere molto interessato alle opere dei Greci e dei Romani (nel suo quaderno c’è solo un disegno di una statua classica), mentre nutriva una venerazione per Tiziano. Le pagine del Taccuino italiano sono piene di copie dalle opere del maestro della scuola veneziana, accompagnate ogni tanto da disegni presi da Raffaello, Giorgione, Paolo Veronese, Parmigianino. Come sempre, però, quello che trovo più interessante nei taccuini degli artisti che viaggiavano in Italia sono le scene di vita quotidiana, i piccoli appunti, le note di colore che emergono tra le pagine. Nel caso di Van Dyck ce ne sono diversi, e i più interessanti arrivano dal suo soggiorno a Palermo. Abbiamo per esempio il disegno di una compagnia di commedia dell’arte e quello di una strega.
Van Dyck capitò a Palermo in un momento molto particolare. Nel 1624 la città siciliana era in preda a un’epidemia di peste4. Tra gli ammalati c’era anche una donna, Girolama la Gattuta, che in un letto dell’Ospedale Grande di Palermo sognò Santa Rosalia, vissuta mezzo secolo prima: la santa le promise la guarigione se si fosse recata in pellegrinaggio sul Monte Pellegrino, il luogo dove la santa si era ritirata per vivere da eremita. Girolama seguì le istruzioni e sul monte ebbe una seconda visione che le indicava dove trovare le reliquie della santa. Effettivamente sul posto vennero ritrovate delle ossa umane, e per tutti si trattava ovviamente delle ossa di Santa Rosalia. Dato che i palermitani erano cerca di salvezza dall'epidemia di peste, la santa fu scelta subito come patrona di Palermo, e nel giugno 1625 le sue reliquie vennero portate in processione in mezzo alla folla: questo avrebbe potuto diffondere ulteriormente il contagio, e invece la peste si bloccò5.
Non so quanto di tutto questo Van Dyck abbia visto di persona, in ogni caso la ritrovata popolarità della santa rese necessaria anche una nuova iconografia. Van Dyck dipinse Santa Rosalia già nel 1624, tuttavia deve aver lasciato Palermo prima della fine all’epidemia di peste: a quanto scrivono i suoi biografi il pittore decise di tornare a Genova proprio per sfuggire al contagio. A Palermo però mandò la pala d’altare Madonna del Rosario, dove compare anche Santa Rosalia, conservata all’Oratorio del Rosario di San Domenico. Van Dyck lasciò definitivamente l’Italia nel 1627, ma continuò a dipingere Santa Rosalia (Incoronazione di Santa Rosalia, 1629) e a lavorare per committenti italiani.
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Vedi il post L’inglese che salì sul Vesuvio.
Vedi il post Firmato Pietro Paolo Rubens.
Vedi il post Non è un paese per fiamminghi.
Tra le vittime ci fu anche il principe Emanuele Filiberto, che Van Dyck aveva ritratto solo pochi mesi prima.